C’è una leggenda che narra di un giovanissimo John Dawson Winter III che, dopo aver assistito ad un concerto di B.B. King, lo convinse a prestargli la chitarra e a suonare sul suo stesso palco, ottenendo una standing ovation. Non so se questa leggenda sia vera o meno, ma posso finalmente dire di aver capito cosa può aver dato vita ad una simile diceria. Il 21 maggio scorso, al Bloom di Mezzago (MB) ho assistito al concerto di Johnny Winter e nonostante alcuni disagi provocati dal volume troppo alto e dalle manie di protagonismo di Paul Nelson (seconda chitarra), Johnny Winter ha lasciato un segno indelebile nel mio cuore e nella mia mente. Il concerto ha inizio alle 22 con un brano strumentale eseguito magistralmente dalla band, a cui fa seguito l’accompagnamento di Winter sul palco. La vista di questa scena mi ha fatto preoccupare: ok che è vecchio, ok che la sua vita è stata un tripudio di eccessi, ma dio mio Johnny (e qui è scattato il mio egoismo) non azzardarti a far saltare il concerto per problemi di salute! Visto che è arrivato alla sedia decido di tranquillizzarmi e di ascoltare ciò che le corde della sua chitarra hanno da dirmi. Ma lui, forse proprio per smentirmi e senza troppi fronzoli, inizia a suonare “Johnny B. Goode”, con un ritmo accattivante e con la band che lo accompagna divinamente.
Ma c’è ancora qualcosa che non mi convince: la voce un po’ troppo bassa e l’esecuzione un po’ lenta. Insomma, Johnny Winter si deve ancora scaldare, e lo farà. Infatti, dopo un paio di canzoni di routine JW si è scaldato e, anche se non sembra, è pronto a prendere a calci l’intero locale senza dover alzare le chiappe dallo sgabello. Nell’esecuzione di “Got My Mojo Working”, cover del celebre Muddy Waters, Winter mette tutto sé stesso, ma il volume della seconda chitarra è così alto che da solo Paul Nelson riesce a coprire l’intera band. La voce del povero Johnny oramai è quello che è e, nonostante il basso abbia un suono pieno ma non invasivo, la seconda chitarra sembra essere collegata a dieci amplificatori in più. Questo problema purtroppo continuerà per tutta la durata del concerto, e vedrà Paul Nelson fare assolo da prima chitarra andando totalmente sopra a quelli di Johnny o addirittura coprire il suono dello slide del leader. Insomma, qualcuno dovrebbe ricordarsi che suona nella Johnny Winter Band e non il contrario. Tralasciando questi problemi, va detto che Nelson tiene in piedi buona parte del concerto. Bisogna infatti ricordare che JW è uno che ha fatto dell’energia il punto forte delle sue esibizioni, e che, a 70 anni, questa viene immancabilmente a mancare; perciò gli assolo e la velocità della seconda chitarra hanno permesso a Johnny di mantenere un ritmo elevato per tutta la durata del concerto senza stancarsi troppo. In conclusione posso dire che averlo visto dal vivo è stata un’esperienza indimenticabile e soprattutto un desiderio avverato. Un concerto magistrale, diviso in due parti. La prima molto più rock con cover di canzoni come “Jumping Jack Flash” e “Highway 61”, e la seconda tutta in chiave slide nella quale Winter ha dato voce alle sue radici più blues e ha insegnato a tutti cosa vuol dire andare ad ascoltare un mostro sacro del suo calibro. L’unico rimpianto lasciato da questa serata è quello di non aver potuto assistere ad un suo concerto durante la sua giovinezza. So che è un cliché per uno che come me è nato nel 1988, ma dopo aver visto che forza può scatenare un vecchietto seduto su di uno sgabello, non posso fare a meno di chiedermi cosa dovesse provare il pubblico durante le sue esibizioni degli anni ‘70.
Gianluca Motta
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