Spostato dall’edizione dell’anno scorso a quella di quest’anno, la quinta per “Bloom In Blues” sempre organizzata dall’Italian Blues River, il concerto di John Hammond lo possiamo indicare come uno dei migliori di tutte le edizioni, in attesa di Eric Bibb e Johnny Winter nella primavera del 2014. Il più longevo e illustre portavoce bianco della tradizione neroamericana, è tornato in Italia nel mese di novembre del 2013 per una serie di concerti, nella veste che più lo contraddistingue, quella acustica, dunque solo voce, chitarre e armonica. Al Bloom di Mezzago (MI) è passato il 16 novembre, e ad accoglierlo c’era tanta gente che lo ha seguito fino alla fine, anche fra i posti “in piedi”. Con cognizione di causa, chi di dovere ha deciso che anche l’apertura fosse in acustico. Un’ottima scelta, oltre che artistica, anche di equilibrio stilistico che finalmente abbandona derive elettriche fuorvianti dalla dialettica principale della serata. E’ toccato dunque al duo Reverend & The Lady avviare la serata. Mauro Ferrarese, per questa occasione però, non aveva al suo fianco l’abituale e brava “Lady” Alessandra Cecala (contrabbasso e voce), ma Giusy Pesenti, musicista di old time music, che ha accompagnato Reverend con vari strumenti ritmici: washboard, kazoo, un mestolo, bacchette, ossa (?) ecc. Come sempre motivato dalla inossidabile passione per il blues prebellico e per tutto quello che sa di tradizione, Mauro, sia con la chitarra resofonica che con la dodici corde e il bottleneck al dito della mano sinistra, ha dato un saggio delle proprie capacità, alternando sue composizioni, fra queste “Heaven” e l’autobiografica “26 Aprile”; a coverriproposte con un atteggiamento convincente: “Honey Must Be Love” (di Willie Mc Tell), “Grinnin’ In Your Face” (Son House), il gospel “If I Had A Way” e un passaggio nel repertorio dei Mississippi Sheiks. Un luogo come il Bloom, la calorosa risposta del pubblico e John Hammond che lo ha attentamente ascoltato, hanno dato una ulteriore spinta alla riuscita del suo concerto.
Prima di parlare di John Hammond sul palco, vogliamo ancora una volta sottolineare quanto un personaggio di tale importanza storica, non si sia mai sottratto dal rapporto con tutti. Prima dell’inizio della serata ha sostato nel locale come fosse uno qualunque, lo hanno salutato, gli hanno stretto la mano, hanno scattato foto, e lui sempre disponibile, gentile, educato, sorridente, come se ogni volta dimostrasse la sua gratitudine ad un pubblico che continua a seguirlo. Una volta accomodatosi sul palco, ha dato ancora una ennesima riprova di ammirevole dedizione e coerenza, ed è incredibile come dopo cinquant’anni di attività, nei panni di uomo di blues, sia ancora posseduto da quella tradizione secolare come se fosse nato nel Sud agricolo e povero degli Stati Uniti, e non in una città opulenta del Nord come New York e da una famiglia agiata. I pezzi che fanno parte del suo esteso repertorio, fra dischi e concerti li abbiamo sentiti numerose volte, ma ogni qualvolta che li ripropone riesce ad infondervi nuova linfa e trasmettere una carica emotiva contagiosa. Bravissimo come sempre nei pezzi dove unisce chitarra e armonica, mentre il canto, pur non avendo mai avuto particolari inflessioni nere, non manca mai di intensità o vigore. Ha iniziato con “You’re So Fine”, creato uno dei migliori momenti del concerto con una appassionata versione di “My Time After A While”, tolto note e messo intensità in “Come On In My Kitchen”, reso lirica “Hard Time Killing Floor”, eseguito l’immancabile “Someday Baby”, scavato nel repertorio di Lightnin’ Slim e Howlin’ Wolf , raccontato della sua prima volta a Chicago, di Maxwell Street e della amicizia con Mike Bloomfield ed ha chiuso il concerto con un omaggio a Bobby Bland (scomparso da poco) con “Further Up On The Road”, prima di chiamare sul palco, Reverend & The Lady per un paio di pezzi insieme.
Silvano Brambilla
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