In passato abbiamo parlato della tua canzone “Charlie Stone” e di come l’hai ri-incorporata dalla versione originale. Anche questa canzone è nel tuo album “Fast and Funky”.
“Trombone Cholly” di Bessie Smith. Perls aveva messo da parte quel 78 giri proprio per farmelo ascoltare, dicendomi che da quella canzone avrei potuto ricavarne un’altra, nel mio stile. Fatto sta che avevo la canzone dentro la mia testa e già ne cantavo una versione quando Charters mi aveva registrato ma non ero contento di quella versione. In quel periodo (anni ’60) c’erano diverse canzoni con la parola ‘stone’, oppure ‘stoned’, erano parole molto usate dai giovani di allora. Ho sentito come Bessie Smith cantava la canzone, tenendo le parole piu’ a lungo, con un fraseggio più lungo. La sua progressione è quella che ho tenuto, ho deciso di mischiare tra il parlato e il cantato.
Ricordi le registrazione per Nick Perls?
Certo. Mi ha registrato a casa sua nel 1970, aprile 1970. Mi ha chiesto se potesse accompagnarmi sulla chitarra in alcuni brani e gli ho detto di sì, ci teneva (risata). Poi l’ha pubblicato nel ’71. Nelle discussioni che tenevamo in gruppo mentre ascoltavamo quei vecchi 78 giri, Perls, a volte, diceva che voleva fondare una nuova etichetta dedicata esclusivamente a nuove registrazioni e non compilazioni di 78 giri. Era annoiato che così poche case discografiche registrassero i meno conosciuti della nuova generazione come me e John Miller. Hai mai visto suonare John Miller? Un vero chitarrista dall’inizio alla fine. Voleva registrare questo nuovo gruppo di giovani… Roy Bookbinder e altri. Charters era passato ad altri progetti e Caplin (Arnold S. Caplin fondatore della Biograph Records ndt) non aveva ancora cominciato a registrare, faceva solo compilazioni. Perls sapeva che Caplin ci stava pensando. Hai mai parlato con Caplin? È un tipo interessante… (aspetta la mia risposta).
Una volta o due quando volevo fare un film documentario sul Rev. Dan Smith.
Scommetto che al telefono ti ha risposto una signora che ti ha chiesto chi volesse parlare con “il Signor Caplin e per quale motivo”. (Lunga risata).
Proprio così, suppongo si trattasse di sua moglie.
E’ così. Un anno dopo (1971), Caplin mi ha registrato accompagnato da John Hammond, Jr. In ogni caso, Perls voleva iniziare una nuova etichetta e il mio disco (LP) sarebbe stato il primo disco del catalogo. Perls aveva questa teoria, e se ci pensi, aveva ragione. Nelle sue ricerche, ascoltando quei 78 giri, si è accorto che tutti quei Bluesmen erano al massimo delle potenzialità come chitarristi per tecnica e velocità, fraseggio, voce ancora forte, creatività nel formulare o scrivere canzoni…tutto! Era molto persuaso di questo ed era in grado di dimostrarlo, secondo lui, le poche eccezioni erano: Blind Blake, Gary Davis, Charley Patton e (Mississippi) John Hurt. Ma la maggior parte era al suo massimo di creatività e agilità musicale quando erano giovani, quando erano ventenni o trentenni. Quando mi ha registrato, non vorrei dire che ero un musicista maturo, ma sicuramente potevo suonare la chitarra con velocità quando necessario e la tecnica era già sicura. Non ero ancora contento di… come cantavo. Adesso metto più attenzione su come canto senza tralasciare la tecnica con la chitarra.
Per quanto ti ho sentito bisticciare con Perls (al telefono), devo dirti che mi sembrate più in accordo di quanto mi aspettavo.
(Risata). Siamo come cani e gatti ma quando ha ragione sono il primo a riconoscerlo (risata).
L’LP sulla Blue Goose e quello sulla Biograph sono stati pubblicati a breve tempo uno dall’altro.
Sì, erano uno dopo l’altro, avevo molto materiale. Ma questi dischi, le performance nei club non mi accontentavano. Non avevo qualcuno da condividere queste soddisfazioni, come una moglie e figli… una famiglia. E questo ha avuto un effetto di cui ancora risento. Ho incominciato ad allontanarmi da quella scena. Ero sempre capace di mettere insieme nuovo materiale, sia per la chitarra che per cantare ma ho incominciato a disinteressarmi. Suonavo sempre negli stessi posti ed ero conosciuto dagli appassionati di Blues e non da un pubblico più largo. Il mio nome non suscitava grande interesse. I soldi non erano un granché’ ma bastavano, non ero in miseria. È quasi impossibile soggiogarmi psicologicamente. Ma c’erano cose che mi preoccupavano, pensieri… dopo la separazione con mia moglie non ero piu’ contento di niente, mi mancavano i figli, non li vedevo crescere di giorno in giorno. La cosa che non avrei mai voluto era una famiglia a pezzi. Ogni volta che parlavo al telefono con mio padre e gli parlavo delle mie difficoltà in casa mi si raccomandava: “devi tenere la famiglia insieme”. È successo quello che è successo e dopodiché’ non me ne importava molto sia della musica né del successo. Ero molto preoccupato per i miei figli. Poi mi è successo qualcosa di inaspettato. All’inizio mi piaceva il Blues. Con il passare del tempo sono diventato il Blues. Questo non me l’aspettavo. Uno della mia generazione avrebbe dovuto essere un musicista di musica Soul come James Brown. A un certo punto volevo cambiare direzione ma non ci sono riuscito, qunado prendevo in mano la chitarra ne usciva il Blues. Il Blues non viene facile e mi sono reso conto che contento o no, questa musica fa parte di me, meglio continuare, cercare di migliorare e non cercare di perdere interesse nel Blues.
Nel frattempo, però, non ero pagato molto per le registrazioni. (Arnold) Caplin (Biograph Records) mi pagò 500 dollari per il disco. Il disco ha venduto poco e i diritti d’autore erano pochi dollari l’anno. L’unico disco che ancora genera diritti d’autore è il Blue Goose, non tanto ma almeno alcune centinaia di dollari l’anno. Le registrazioni non mi attraevano più, appunto perché’ pagavano così poco. Nel frattempo, la cosa del Folk e del Folk Blues stava morendo. Ero molto preoccupato da tanti pensieri dentro la testa e cercavo di non mostrarlo. Cercavo di essere sull’attenti a non trascurarmi fisicamente. Ho visto tanti artisti quando hanno smesso di cercarli sembrare dei clochard. Anche durante i miei giorni più bassi, anche quando non avevo una dimora fissa e dormivo nei rifugi per i senzatetto e non mi interessavo i beni materiali ero ancora capace di idee che poi avrei usato un domani.
Nessuno ti ha chiesto di registrare in questo periodo del quale stai parlando?
Pochi e sempre con la promessa di diritti d’autore e niente, o quasi niente, per la registrazione. Quello della Trix Records (Peter Lowry ndt) voleva registrarmi ma non era in grado di pagarmi quello che volevo. Tutta quella scena si era ridotta e sono arrivato al punto che ho smesso di registrare, ho smesso di suonare la chitarra, ho persino venduto le chitarre che avevo. Mi arrabbiavo a vedere le chitarre nella mia camera e non volevo suonarle senza un motivo, o un compenso. Le ho vendute. Le chitarre le conosco bene, ho imparato da Gary Davis a conoscerle. Alcuni si mettono in testa che devono per forza suonare una chitarra Martin o Gibson, sciocchezze! La chitarra che suono adesso non la conosce nessuno ma è di ottima qualità e non l’ho neanche comprata, me l’ha regalata il costruttore della chitarra, era il prototipo.
Stai parlando di giorni molto pesanti della tua vita.
Gary se n’era andato, mio padre se n’era andato, i miei vecchi parenti più stretti se n’erano andati, i miei figli non erano più davanti ai miei occhi. Ero ridotto nelle stesse condizioni precarie. Affitto una camera qui per due mesi o tre e così via da dopo che ci siamo conosciuti (1986).
Nick Perls non ti ha piu’ chiesto di fare un altro disco?
La nostra amicizia era finita. Ho smesso di frequentarlo a casa sua; gli altri se n’erano andati un po’ alla volta. Non era più come prima. I tempi erano cambiati sia per lui che per me, eravamo entrambi trentenni/quarantenni e stavamo cambiando.
Questo periodo però coincide con il disco per la Biograph, appena prima della tua caduta chiamiamola così, se non ti dispiace.
(Risata) Non mi dispiace! Suona molto drammatico. (Risata). Arnold Caplin si presenta e mi propone 400 dollari. E io gli dico di sì. A quel punto già spacciavo droga (cocaina ndt) e i soldi non mi mancavano, non era per quello che ho registrato. Mi sentivo quasi in colpa a non registrare, volevo dimostrare che ero ancora un musicista capace di contribuire – come ti ho detto poco fa, il materiale non mi mancava; non mi è mai mancato. Adesso, andiamo nello studio di registrazione e a mia insaputa e completa sorpresa, Caplin aveva chiesto a questo giovane uomo bianco che non avevo fino allora conosciuto di accompagnarmi alla chitarra: John Hammond (Jr.). Hammond mi ha dato l’impressione che era lì per contribuire qualcosa all’intera umanità facendo questo disco con me.
Non ti è andata giù tanto bene…
Per niente, e adesso che ci ripenso, neanche per colpa sua. Solo che non me l‘aspettavo. Io m’aspettavo di registrare da solo. Avevo preparato tutto il materiale e pensando che mi sarei accompagnato solo con la mia chitarra. Non vorrei essere ricordato come un ingrato ma devi riconoscere una cosa, tutto quel materiale che avevo preparato ho dovuto ripensarlo per due chitarre. Ho dovuto mettermi lì, canzone per canzone, mostrargli gli accordi e i cambiamenti e poi decidere se andava bene o no, cambiare se non andava bene e riprovare tutta la canzone prima di registrarla. Ho dovuto cambiare tonalità cosicché potesse accompagnarmi. Quell’album, non dico che non mi piace ma non è quello che volevo registrare. Diciamo che l’ho registrato per tenere il mio cappello nell’arena. Poi sono andato a Denver, Colorado, spacciavo droga, avevo due macchine e di musica non facevo piu’ niente. Un giorno entro in un negozio di dischi e vedo questo Shelton – come si chiama?
Sheldon Harris? L’autore Sheldon Harris?
Sheldon Harris! Vedo il suo libro “Blues Who’s Who”; guardo e vedo che sono nel libro con un’intera pagina e più dedicata a me. Non me l’aspettavo di essere incluso in un libro di storia del Blues. Questo ha riacceso la mia passione per la musica. Ho smesso tutto. Ho venduto le macchine, ho lasciato l’appartamento a Denver e sono ritornato a New York. Ho subito incominciato a registrare per Lenny (Kunstadt, Spivey Records ndt). Ero quarantenne ormai. Bene… poi ho deciso di vedere come erano messe le cose, come stavano le cose a New York per spacciare e ho subito visto che c’era molta violenza, spacciatori che non ci pensavano due volte a farti fuori, per motivi anche stupidi e niente a che fare con gli affari e dovevi essere pronto a farlo anche tu se volevi essere rispettato e rimanere vivo. Questo era fuori dai miei calcoli e così mi sono subito trovato squattrinato. Dalla musica non ricavavo praticamente nulla.
Lenny Kunstadt lo conoscevi da tempo, se non mi sbaglio e anche Victoria Spivey?
Sì, lo conoscevo già da tanti anni, quando era sposato con Victoria Spivey. Spivey l’ho conosciuta tramite Gary, loro si conoscevano bene. Io sono andato a casa loro (Lenny Kunstadt e Victoria Spivey) e mi hanno sempre ospitato con generosità e rispetto. Comunque, sono stato io a chiamarlo.
In quel primo LP per la Spivey erano presenti altri artisti.
Sì, non era il mio disco. Ho registrato lo stesso giusto per tenermi un posto per i fan di blues, a dire il vero… In modo che non fossi completamente dimenticato e magari farne uscire qualche interesse da parte dei club. Nessuno era interessato a registrarmi in quei giorni.
Successivamente hai registrato accora per Lenny, accompagnato all’armonica di Nat Riddles.
Sì. Lo ritenevo molto capace mi accompagnava a mio piacimento. Lenny l’ha subito accettato – voglio dire – di essere accompagnato da qualcuno che non conosceva. Nessuno conosceva Nat. Questi dischi non pagavano nulla e Lenny poteva offrire poco, quasi nulla. I dischi della Spivey li trovavi in pochissimi negozi, non aveva una distribuzione come gli altri e neanche facevano una gran figura come copertina…
Erano messi insieme con un po’ di carta e colla, dei veri collage fai-da-te.
Proprio così (risata)… ma vedi, Lenny era un amico, uno di quelli che, quando hai veramente bisogno, non ti abbandona. Squattrinato com’ero, mi dava sempre qualcosa o per l’affitto, o per poter mangiare o anche per comprare la coca; lui non mi giudicava. Il suo interesse per il Blues era sincero; non lo faceva per fare soldi, sapeva che i dischi li avrebbero comprati in pochi… ma continuava a registrarli e con molta passione.
Dove andavate a registrare?
A casa sua, oppure nella mia camera che avevo in affitto. Dopo la morte di Victoria Spivey registrava sempre meno e con un registratore portatile. Ogni volta che suono viene a vedermi. Ti ricordi quando ho suonato a quel club… l’Abilene? (Abilene Cafe’, 2nd Avenue, 21ma Strada ndt)…è venuto ed è rimasto tutta la notte. Lenny è fatto così.
Quando hai registrato per Horst Lipmann (L+R Records)?
Nell ’82… Dopo aver registrato per Lenny. Quello è stato un salto di qualità per me. Lipmann mi ha registrato al momento giusto, quasi come se stesse aspettando. Ero pronto, avevo alcuni nuovi brani ed ero preparato con la chitarra anche se in quei giorni non avevo più una mia. Mi sentivo proprio pronto e volevo registrare. Sentivo qualcosa di nuovo e volevo metterlo in un LP e Horst Lipmann era lì che mi aspettava, per così dire. (L+R Records LR 42-046) Un po’ di tempo dopo ho registrato di nuovo per Lenny (“BasinFree”, Spivey Records 1034). Ci sono poi altri brani che ho registrato per Lenny e appaiono in diversi LP della Spivey, uno qui’, uno là… non ne tengo neanche conto di quelli. Come quelli che ho registrato per Bobby Robinson e sono poi apparsi anni piu’ in là in una etichetta inglese (“Presenting the Country Blues”, Blue Horizon 7-63851), sono cose poco preparate e meglio non parlarne e scordarsele (risata).
In queste registrazioni, o molte di queste, sei accompagnato da Nat Riddles all’armonica. Di lui non avevo mai sentito parlare prima… come l’hai conosciuto? (a nostra insaputa Nat Riddles era già deceduto da diversi mesi).
Nat racconta la storia del nostro primo incontro che io non ricordo tanto bene nei dettagli. Secondo lui, ci siamo incontrati mentre suonavo con Washboard Doc nel Washington Square Park. Lui chiese se poteva suonare con noi e, secondo lui, gli risposi “ne sei capace?” Sempre secondo lui, questa mia risposta lo rimanda allo studio approfondito dell’armonica (risata). Mi disse una volta che non vedeva l’ora di incontrarmi e dimostrami che “ne era capace”! Piu’ tardi abbiamo avuto molte occasioni per suonare insieme, club come The Bitter End e qualche festival.
Suonavi spesso con Washboard Doc ma a mio avviso non hai mai registrato con lui o sbaglio?
No. Non ho mai registrato con lui. Washboard era molto bravo ad attirare il pubblico quando suonava ma quello strumento non mi attrae tanto. Suonavo volentieri con lui, era divertente e alla fine del giorno si andava a casa con la tasca piena di soldi. Doc chiedeva al pubblico di contribuire qualcosa, anche solo un quarto (25 centesimi ndt) e era capace di aspettare che abbastanza gente mettesse i soldi nella catinella prima di ricominciare a suonare (risata).
L’ho visto suonare a Washington Square Park nei primi anni ’80 o forse anche prima. Suonava accompagnato da altri due e aveva un gruppetto di persone attorno che ascoltava. Stavo per fargli una fotografia e lui smise di suonare, puntò il dito verso di me e poi fece cenno alla catinella colma di soldi per dirmi di metterci qualcosa anch’io. Ci misi un dollaro, mi sorrise soddisfatto, dandomi l’OK per fotografarlo, riprese subito a suonare.
(Risata) E poi ha scattato la foto?
No, mi sono impuntato, ho ascoltato la canzone e poi me ne sono andato senza mai fotografarlo. (ridiamo tutti e due).
Torniamo al periodo dopo la registrazione per Horst Lipmann. Sei andato in Europa in quel periodo.
Sì, stesso periodo ma non era la mia prima volta in Europa. La prima volta fu nei primi anni ’70. Ero andato con Roy Bookbinder, JoAnne Kelly… era una cosa organizzata da Nick Perls. Siamo rimasti una settimana, forse due, solo a Londra. (Pausa).
Mi viene in mente che la ragione di quella canzone (“Johnson Where Did You Get That Sound?”)era proprio perché’, per un po’ di tempo non riuscivo a suonare come avrei voluto e poi a forza di suonare mi è venuta fuori “Johnson Where Did You Get That Sound?” Non sono mai stato completamente contento di “Basin Free”. È l’unico dei miei album dove suono l’armonica, una cosa tipo “John Henry”. Se avessi una band lascerei stare la chitarra, canterei e suonerei l’armonica. Non per sempre; solo per un periodo di tempo per provare quelle tante canzoni che, secondo me, mi riuscirebbero meglio se mi concentrassi solo sulla voce… e un po’ di armonica.
Sei ritornato in Europa con un tour organizzato negli anni ’80.
Sì, era un tour ben organizzato ed eravamo molto apprezzati, contratti in mano, accompagnati da un posto all’altro, trattati molto bene; c’era Carey Bell,Louisiana Red, Jimmy Rogers, Queen Sylvia… e altri. Siamo stati in Germania e Svizzera.
Li conoscevi questi artisti prima del tour?
Per la maggior parte. Carey Bell lo conoscevo già, prima del tour mi trovavo a Chicago e alloggiavo da Carey. (Anticipando la domanda)Non sono andato a Chicago per suonare. Ci sono andato per andarmene da New York per un po’. Questa dipendenza della cocaina mi agitava, non potevo concentrarmi, ero sempre in mezzo alla stessa gente che ne faceva uso tutti i giorni. Ero preoccupato.
Eri diventato così dipendente?
Assolutamente! La spacciavo e la usavo, 1g ogni qualche ora. Avevo finalmente capito che dovevo smetterla e sono partito per Chicago. Dovevo immergermi attorno a gente che pensa solo alla musica. Quando ero a New York circondato da questa gente (tossico-dipendenti) non pensavo ad altro che alla cocaina, non c’era posto per la musica. Ti credi capace di suonare ma poi ti accorgi che non hai la forza e non hai la creatività. Mi sono rimesso a posto prima del tour europeo mentre ero a Chicago. Ogni giorno parlavo di musica con qualche altro musicista, persone che hanno conosciuto i grandi di questa musica, come Little Walter, Tampa Red, Big Maceo. Ho parlato con Muddy (Waters) e tanti altri, così facendo mi sono preparato per il tour.
C’e’ un detto fra i musicisti, quei pochi che conosco, e questo me l’ha detto Mighty Joe Young, ed e’ questo: i vecchi musicisti parlando tra di loro, parlavano di musica e donne, mentre molti dei giovani musicisti parlano solo di droga.
È vero. Muddy era pazzo per le donne, Junior (Wells) non di meno. James Cotton poi…
Torniamo alla tua preparazione per il tour: possiamo chiamarla una svolta? Un nuovo inizio per la tua carriera?
Non proprio, mi ero messo in grado di affrontare il tour e nient’altro. Penso, anche oggi, che la mia cosiddetta carriera come musicista sia ancora di fronte a me. Adesso è piu’ difficile prepararmi. Avrei bisogno di suonare in un locale almeno due o tre serate al mese per mettere alla prova il mio materiale. Ho tante canzoni da provare e vorrei arrivare al punto di non ripetere neppure una canzone in una decina di performance; ogni volta che mi presento, presento un repertorio diverso. Ne sono capace, me lo sento. Però… non voglio presentarmi per 20 dollari a serata! E farmi sentire come se mi stessero facendo un favore. Ci sono le minime spese: corde per la chitarra, corde decenti, non quelle che si comprano per tre centesimi, servono soldi per presentarmi decentemente e non vestito di stracci. Insisto ad essere trattato con rispetto e pagato decentemente. Non vado a suonare nei club per ubriacarmi. Preferisco piuttosto andare nella tomba senza presentarmi più.
Sei un uomo difficile Larry! (con ironia).
Certo che sono difficile e sarò sempre più difficile, man mano che passano gli anni. Voglio essere presentato come voglio io, non voglio essere impacchettato e presentato come vogliono i manager dei club o chiunque altro. Intendo presentarmi con dignità ogni volta che mi presento perché’ ci tengo. È una cosa che cerco sempre di proteggere. Ti dico questo: se mai ti capitasse di vedermi sul palcoscenico malconcio, vorrebbe dire che a me non importa più nulla di nulla.
Dopo tanti giri e rigiri sei tornato ad abitare a Harlem.
Mi mancava. Harlem è cambiato molto. Bobby Robinson è ancora qui ma pochi altri di quelli che conoscevo. È ancora un ghetto, ma più avaro e misero di prima, uno potrebbe essere ammazzato per un dollaro e prima non era così. Sono qui perché’… questa non e’ solo una camera, c’è anche una piccola cucina dove mi posso fare la colazione e quelle cose lì. E’ tanto tempo che non abitavo in un appartamento e mi mancavano queste cose, queste routine. Posso prendere in mano la chitarra e suonare senza disturbare nessuno. Quando abitavo o co-abitavo in una camera, una settimana qui, una settima là, non potevo neanche toccare la chitarra. Quella volta che mi hai visto suonare ad Atlanta,Georgia, (Al Downhome Blues Festival, 1985 ndt), era piu’ di 14 mesi che non suonavo.
Ti eri fatto prestare la chitarra da John Jackson. Lui viaggia quasi sempre con due chitarre.
Era da parecchio tempo che non avevo più una chitarra. Dopo quel concerto sono tornato a New York; ero ad Atlanta per visitare i parenti e quando ho visto l’annuncio del festival sono andato dal promotor e ha accettato di presentarmi anche se non ero inserito nel programma. Dopo qualche settimana sono ritornato a New York.
Ti piace viaggiare?
Sì, appena sento di essere limitato, mi metto in viaggio per un altro posto, un altro quartiere, un’altra città, anche se è per poco tempo. Ti sembrerà strano ma aiuta la mia creatività.
Mentre camminavo tra la metropolitana e casa tua, ho incontrato un musicista che suonava una batteria sgangherata. Suonava sul marciapiede. La batteria era sgangherata ma lui era vestito con giacca, cravatta a farfalla e cappello alto e nero.
(Risata) Queste cose le vedi solo nelle strade di Harlem. Ti ha fatto venire in mente Professor Six Million…
Ho pensato proprio a lui e mi sono fermato un attimo per accertarmi se fosse lui ma non lo era. Ma… a proposito di Professor Six Million… come l’hai conosciuto?
Era il batterista di Charles Walker.
Sei stato tu a chiamarlo Professor Six Million?
Si’; all’inizio lo chiamavo ‘Fess (per Professor). Una sera stavamo suonando al Kenny’s Castaways e lui era vestito come hai descritto il batterista che hai appena visto, giacca scura, camicia bianca, cravatta a farfalla, cappello alto. Ogni tanto andavo a casa sua e in quel periodo c’era un programma televisivo “Six Million Dollar Man” e così ho cominciato a chiamarlo Professor Six Million. A lui è piaciuto. Ho continuato a chiamarlo ‘Fess Six Million da allora in poi. La prima volta che ha usato il nome professionalmente è stato quando abbiamo registrato con Willie Dixon per Spivey (Records). Anche a Dixon piaceva il soprannome e così e’ rimasto ‘Fess Six Million. Non chiedermi quale sia il suo vero nome perché’ non me lo ricordo più. (risata).
È uno dei tuoi piu’ vecchi amici.
Ci conosciamo da tanti anni, è uno di quelli che ti consiglia quando gli altri ti girano le spalle. Quando mi mancavano i miei figli, lui mi incoraggiava. ‘Fess era stato sposato già due volte, con figli e alla fine è rimasto solo com’ero io. Lui aveva capito che ero non solo preoccupato per i miei figli, ma che ero anche arrabbiato. Essere arrabbiato mi toglie tutte le energie. ‘Fess se n’era accorto e mi consigliava in un modo che risuonava in me; forse perché’ aveva avuto una esperienza simile. “Lascia che lo stesso Dio che procura per gli altri, procuri anche per te”. Quando mi ha detto così, non mi sentivo piu’ arrabbiato. Il nostro legame non viene dalla musica, lo rispetto come musicista – non vorrei essere frainteso. Ho sempre pensato che gli altri non lo prendono sul serio, né come musicista né come persona.
Perché’?
Perché’ è accomodante e la gente se ne approfitta. Si comporta modestamente ma questo non vuole dire che non sia un buon musicista, lo è.
Anche Sugar Blue ha suonato con te per un certo periodo di tempo.
Oh Buon Dio! Sugar Blue. James Whiting.
Si chiama James Whiting? Questo te lo ricordi ma non il nome di ‘Fess.
È così (risata). Sugar Blue si chiama James Whiting. Sua madre si chiamava Joyce. L’avevo conosciuta così per caso mentre ero in un bar a Harlem e parlando, gli avevo detto che avevo registrato alcuni dischi di Blues; forse avevo la mia chitarra con me e mi aveva chiesto che tipo di musica suonavo, qualcosa del genere… non mi ricordo esattamente. Lei mi disse che, quando era giovanissima, ballava all’Apollo Theater a Harlem e aveva conosciuto Bessie Smith. E poi mi dice che suo figlio che chiamava ‘Sugar’ voleva imparare l’armonica. Per circa una settimana sono andato a casa loro per insegnare l’armonica a Sugar, come trovare i diversi suoni, suonare da solo o come accompagnamento alla mia chitarra. Siamo diventati amici ma tra noi c’è un enorme differenza in età e non riuscivo a controllarlo come avrei voluto; è molto bravo con l’armonica e potrebbe essere più creativo invece di suonare un milione di note al secondo. E così l’ho lasciato andare per la sua strada…è tutto quello che ho da dire su di lui.
Hai suonato nei club con lui?
Alcuni. Lui andava sempre dietro le gonne (donne) anche quando stavamo suonando e quello stile di vita mi ha sempre infastidito; quando suono non voglio persone intorno a me… prima di suonare voglio concentrarmi su quello che suonerò, non voglio chiacchierare. (Nat) Riddles ha una gamma di suoni più ampia… e si presenta con umiltà.
È importante presentarsi con una certa umiltà?
Certo, certo… Gary Davis me l’ha fatto capire. Suoni davanti a persone che magari non ti hanno mai visto né sentito; non presentarsi come se tu fossi il migliore di tutti. Mai. Davis mi ha fatto capire un’altra cosa di cui nessun altro mai parla: bisogna presentarsi dignitosamente e con rispetto per il tuo pubblico, che sia bianco o nero.
Come te l’ha spiegato?
Prima di tutto bisogna accettare tutti, tutta l’umanità, non puoi spezzarti in due; non suonare in un certo modo per un pubblico bianco e un altro per quello nero. La musica è per tutta l’umanità e non per questo o per quello. Se la musica è onesta, sarà capita da tutti anche quando suoni in un’altra parte del mondo dove non parlano l’inglese. Questo me l’ha fatto capire Gary ed è la semplice verità. Quando suono in un’università, come mi è capitato diverse volte, o in altri posti, vedo che la mia musica è apprezzata. Ai primi tempi pensavo che fosse apprezzata solo dove abitavano persone nere del Sud come me… ma Gary mi ha dimostrato che la cosa è più larga, lui non diceva tutta l’umanità’, lui diceva “tutti i figli di Dio”. Devi esserne convinto.
Gira e rigira, è ancora Gary Davis che ti guida.
Il tirocinio con Davis mi ha salvato; ne sono convinto più che mai. Tutto quello che mi detto e insegnato mi sta ancora aiutando oggi… e domani. Un artista, qualsiasi artista deve imparare come accettare le critiche e deve accettarle quanto i compimenti. Ad un certo punto sarai il maestro di quello che stai cercando di fare, lui me lo diceva e poi, dopo una breve pausa mi diceva quanto fosse lunga e tortuosa la strada (risata). Riposiamoci un po’…
(Pausa).
Mentre il registratore era spento, mi dicevi che stavi rielaborando delle vecchie canzoni.
Sì, canzoni che nessuno ascolta più, dei primi anni del Blues, dei primi dischi Blues. Una cosa che ho in mente è che voglio continuare la tradizione, il Blues. Adesso ho più tempo per concentrarmi, non vado da nessuna parte e non vedo praticamente nessuno.
Non ti senti con nessuno adesso che sei a Harlem?
Ogni tanto passo da Bobby Robinson o suo fratello per una chiacchiera, ma altrimenti sto rinchiuso. Non è più l’Harlem di una volta; girano troppe persone che sono uscite di galera con mentalità che viene dalla galera. Prima o poi dovrò andarmene anche di qua o spostarmi più in su (intende dire ben sopra la 125th Street ndt), ci sono persone che uscite dalla galera, fanno della società una galera. Renato! – fammi cambiare discorso – altrimenti siamo persi…
Mi avevi detto, non ricordo quando, che di tanto in tanto, il tuo modo di suonare cambia.
È cambiato il ritmo, il suono.
È un semplice cambiamento o un’evoluzione?
Un’evoluzione – cambiamenti che si succedono un po’ alla volta, non te ne accorgi subito, solo più tardi.
Ti ho sentito suonare anche un po’ di Country con Jim Bennett al dobro.
C’è sempre stato un collegamento tra il Blues, Country e Bluegrass, un incrocio. L’avrai notato anche con John Jackson. Lui è capace di suonare canzoni Country quanto un musicista Country. È capace di suonare il banjo pure. Il banjo era uno strumento molto usato nei primi anni del Blues. Quel tizio che registrò negli anni Venti e che si chiamava Charlie Jackson (Papa Charlie Jackson, 1887-1938 ndt) suonava il banjo.
Il banjo è stato poi quasi abbandonato dai musicisti Blues.
Ha preso campo la chitarra; puoi creare tanti più suoni diversi con la chitarra che con il banjo. Poi c’è il fatto che il banjo ha cominciato ad essere usato dai bianchi in ‘black face’ (uomini bianchi con la faccia dipinta di nero ndt) nei Minstrel Shows… questo ha allontanato molti neri dallo strumento… vedrai che recupererà, è uno strumento con una voce molto particolare.
Quali vecchie canzoni stai rielaborando?
“Tear Your Kingdom Down”, “Railroad Man”, “Camel Walk”; una di Jimmy Reed, “Big Boss Man”. Mi piacciono le canzoni di Jimmy Reed. Ma anche cose mie; ho una canzone in testa che ho già intitolato “I’ve been Watching You”. Se dovessi andare in studio questa sera, sarei pronto per fare un intero album. Niente armonica questa volta, solo io e il dobro di Jim Bennett. Ho una versione di “Cheating Heart” di cui sono molto soddisfatto.
Questo materiale sarebbe una continuazione… no, una estensione di “Johnson Where Did You Get That Sound”. Un’altra… come l’hai chiamata?… evoluzione.
Un’altra evoluzione del mio stile (risata). Diversamente da prima, vorrei più tempo in studio; ne abbiamo parlato. Non solo due o tre ore tutte in un giorno ma tre-quattro ore al giorno per diversi giorni. Devo sentirmi rilassato, non solo preparato. Sto complottando la mia prossima mossa (risata). Bisogna avere pazienza in queste cose; allo stesso tempo non bisogna aspettare troppo o rischi di perdere quello che c’era di nuovo nel tuo suono. È l’unica maniera per tenersi in circolazione. Passa il tempo e perdi quello che c’era di eccitante quando le canzoni erano ancora nuove. Ci sono periodi quando sei pieno di idee – devi fargli strada. Anni fa mi distraevo facilmente, adesso molto meno.
Come mai hai concesso così poche interviste finora? Si vede poco su di te nelle riviste Blues.
La semplice ragione è che nessuno mi ha chiesto di intervistarmi, due o tre in Europa. Non mi prendono sul serio e non sanno cosa chiedermi oltre le domande fatte da sempre. Ti ricordi cosa mi avevi detto quando mi avevi chiesto se ero disposto a farmi intervistare? Dopo averti detto che ero disposto mi hai subito detto che prima dovevi prepararti e il fatto che stiamo parlando da ore dimostra un reciproco rispetto.
Come vorresti essere ricordato nella storia del Blues?
Come uno che ha continuato la tradizione del Blues ed ha contribuito qualcosa di suo, che ha onorato Gary Davis.
(Intervista realizzata nei primi anni Novanta ad Harlem, NYC)
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