Intervista a Larry Johnson – Una promessa mantenuta a metà
di Renato Tonelli
Difficile dire come sia collocato Larry Johnson nella storia del Blues. Voce espressiva, chitarrista di rara capacità, nella tradizione del cosiddetto Piedmont Blues. Era inoltre capace di rielaborare vecchie canzoni e farne delle nuove. Queste sue doti erano veramente notevoli e molto promettenti per il suo futuro e quello del Blues acustico. I musicisti Blues lo apprezzavano e lo incoraggiavano. Appena dopo la scomparsa del Rev. Gary Davis (1972), Larry Johnson si perde, si ritrova e si riperde ripetutamente a causa della sua dipendenza della cocaina. Questa dipendenza ebbe il suo inizio al Dan Lynch Blues Bar (Seconda Avenue e 14ma Strada, NYC). Era la dimora fissa del musicista blues Bill Dicey. La scena consisteva (tardi anni Settanta) di blues e cocaina spacciata sul posto da diversi personaggi, incluso Larry Johnson. Nonostante i travagli e diversi periodi vissuti senza una fissa dimora, è riuscito in qualche modo a ritornare, di tanto in tanto, sulla scena. Il suo grande ritorno fu la sua comparsa durante “Salute to the Blues” al noto Radio City Music Hall (NYC). Il filmato del concerto (“Lightnin’ In A Bottle”, per la regia di Antoine Fuqua) uscì su DVD poco tempo dopo (2004) e grazie ad esso, Larry riuscì per qualche anno a presentarsi per una somma più rispettabile. Si accompagnava non più con la chitarra acustica ma con una chitarra elettrica, aveva difficoltà con l’udito, mi spiegò, e il volume della chitarra elettrica lo aiutava. Intanto i club che proponevano blues incominciavano a scarseggiare e a salvarlo economicamente fu la sua pur minima pensione.
Durante una delle sue ultime apparizioni al Terra Blues (Greenwich Village, NYC, 14 settembre, 2013), cantava solo spirituals. Il dépliant del club lo definiva “un esponente degli stili Blues del Delta e del Texas” (sic) Qualcuno gli chiese di cantare “Charlie Stone” e lui rispose semplicemente che si era allontanato da quel materiale. Aveva difficoltà a ricordarsi le parole e si scusava frequentemente. Durante la prima pausa, visto la sua amarezza, cercai di incoraggiarlo, suggerendogli di suonare solo la musica e lasciar perdere le parole. Proseguì la serata suonando e cantando solo la parte del coro delle canzoni. Anche quella sera era in piena evidenza il suo talento per la chitarra: chiara, ben strutturata ed elaborata. Mi resi conto che Larry avrebbe potuto dare tanto di più a questa nostra amata musica. Riascoltando i suoi primi dischi mi resi conto che prometteva davvero tanto. Una promessa mantenuta a metà di quello che avrebbe potuto essere. Johnson è scomparso il 6 agosto 2016.
“Devo metterci il mio tempo, il tempo necessario prima di rispondere alle tue domande, devo pensarci sopra. Ho una gran voglia di vuotare il sacco.”
Parlami dei tuoi primi anni; chiamiamoli gli anni formativi nello Stato della Georgia.
Prima cosa: sono nato in città e non in campagna, come molti pensano, forse dal fatto che sono conosciuto come un Country Bluesman. Per essere esatto, sono nato nel Greater Hospital. Lo chiamavano Old Greater perché era un ospedale vecchio. In quei tempi (1938), mio padre lavorava per la Seaboard Railroad e mia madre non lavorava; faceva le faccende di casa. Più tardi, quand’ero ragazzo, mio padre, scherzando, mi diceva che per lui il 1938 era stato il peggior anno; aveva forse 27 anni e il paese era in piena depressione. Io mi sono sposato quando avevo 27 anni. Dopo che ho incominciato a girovagare gli piaceva scherzare sul mio anno di nascita dicendo che ero nato nell’anno sbagliato. Non c’era abbastanza di qualsiasi cosa come al giorno d’oggi, c’era tanta povertà in giro. Mio padre è stato il primo della sua famiglia ad istruirsi. Era determinato a cambiare le sue prospettive e della famiglia Johnson. Ma non era preparato per i tempi in cui viveva; era consapevole di quella cosa che ha che fare con il razzismo, specificamente nel Sud… ma lui aveva creduto che una buona istruzione l’avrebbe posizionato un po’ più avanti nel gioco.
Cosa aveva studiato?
Non… come si chiama… non ingegneria, non architetto, aveva a che fare con questi lavori.
Geometra?
Ecco. Aveva studiato da geometra. Era stato promosso anche con ottimi voti man non ottenne mai un lavoro come geometra, solo come aiutante o assistente. Poi è andato alla scuola sacerdotale e ha incominciato a predicare. Questo lo ha aiutato molto.
È diventato predicatore…
Predicatore a pieno diritto. Mi ricordo quando è stato dichiarato [Ministro]… avrò avuto sette anni… forse dieci perché’ me lo ricordo molto bene. Mio padre era più spirituale che religioso; non so come altro spiegarmi. Comunque, anche durante il suo tempo libero era sempre in Chiesa. Un suo amico, anche lui Minister, l’aveva convinto a fare quella scelta.
Il fatto che tuo padre fosse un Ministro, senz’altro anche molto rispettato nella sua comunità, avrà avuto un grande effetto su di te.
No, non tanto. Non ci prestavo molta attenzione, per me era normale. Era una cosa di casa tutti i giorni; faceva parte della nostra vita quotidiana… era la nostra normalità. Quando dici effetto…
Su come ha cambiato le cose per te, rispetto ai tuoi coetanei e non necessariamente in un senso positivo o negativo; solo nel fatto che una persona sia Ministro e che la comunità lo riguarda.
Ho capito cosa stai mi stai chiedendo. Certo, mi rendeva più importante ma non migliore degli altri. Solo un po’ diverso; mi sembrava di far parte di un’altra sfera sociale ed era, infatti, così: facevo parte di un’altra sfera sociale, proprio come ho appena detto, essendo figlio di un Ministro, voglio dire. Da quando lo ricordo, l’ho sempre visto come una guida nella nostra comunità. Naturalmente, anch’io aspiravo ad essere un po’ come lui.
Sappiamo che tua madre è morta quando eri piccolo; hai qualche ricordo di lei?
No, assolutamente nessun ricordo. Nulla.
Sei cresciuto ad Atlanta, Georgia.
Ecco… sono nato nel 1938 e mia madre è morta quasi subito dopo la mia nascita. Me lo dissero qualche anno dopo. Mio padre veniva da Wrightsville, Georgia, non tanto lontano da Savannah. Dopo la morte di mia madre è stato 3-4 anni senza risposarsi e in quel periodo mio padre mi aveva portato in campagna a vivere con sua madre, mia nonna; abitava a Wrightsfield, una cittadina di campagna, una zona del Georgia veramente rurale. Quando vivevo con lei, già non lavoravano più nei campi. Lei abitava con la sua gente, nella sua casa. La casa era circondata dai loro campi. Lavoravano il loro orto ma il resto dei campi era dato in affitto ad altri. Mia nonna faceva da badante ai bambini di alcune famiglie bianche e faceva i lavori di casa in casa loro. Nel weekend portava a casa i loro panni, li lavava, stirava e poi glieli riportava il lunedì successivo. Io giocavo con gli altri bambini vicini; mi ricordo un campo di cotone dove ci trovavamo per giocare… ma stavo per dirti che mia nonna e i suoi non erano considerati poveri, non erano ricchi o benestanti, questo è sicuro. Voglio dire… non mi facevano mancare nulla, non ho sofferto la fame e avevo sempre le scarpe ai piedi, per dire.
C’era musica intorno?
Sì, tanta musica. In queste zone rurali c’erano tanti musicisti: chi suonava la chitarra, chi l’armonica, nella cittadina c’erano Juke Boxes. La musica era tutta Blues o Country Blues o Blues elettrico. Il Blues elettrico lo potevi ascoltare nel Juke Box dei negozi della cittadina, il Country Blues era quello che suonavano i musicisti del posto. Avrai sentito questo tipo di storia parecchie volte, te l’ha raccontata anche John Jackson quando lo documentavi.
John [Jackson] è cresciuto nelle montagne della Virginia e pensavo che forse…
…stessa cosa, o quasi la stessa cosa. Mi ricordo che la musica era ovunque; la gente non stava a casa a guardare la TV; neanche c’era in campagna – non ancora – non nella campagna di allora. La gente si invitava: una sera vengo da te, un’altra sera sei tu a venire da me. Si raccontavano storie, avvenimenti del giorno, parlavano di persone che conoscevano, se c’era un bambino, raccontavano favole. Non è come adesso che tutti si mettono davanti al televisore e diventano rimbambiti [risata). Alcuni erano molto bravi nel raccontare e si potrebbe dire che avevano talento per questo. Ci vuole talento anche nel raccontare storie. Ogni tanto capitava qualcuno con una chitarra e suonava e cantava. Alcune volte suonava solo la chitarra senza cantare. Di questo ho memorie nebbiose e non ti saprei dire di un nome o di una canzone. Mi ricordo bene la casa di mia nonna; una casa di campagna molto grande, con due camini, uno da una parte e il secondo dall’altra.
Com’era la campagna in quei tempi?
Molto rurale (risata). C’era solo quello: campi e campi coltivati, o da coltivare, o da raccogliere. Coltivavano un po’ di tutto, cotone, frutta – specialmente pesche, verdure di tutti i tipi e poi animali per la carne, galline, maiali. Mia nonna comprava pochissimo cibo dai negozi. Era così per tutti nella campagna: ogni famiglia produceva il proprio cibo. Mi ricordo che mia nonna comprava solo caffè, zucchero, sale e poche altre cose.
Ti ricordi come pagavano? In contanti o in acconto per poi pagare più tardi? Te lo chiedo perchè ne abbiamo parlato pochi giorni fa e mi avevi ricordato che nel Sud c’era un sistema…
Ah, sì, mia nonna pagava in contanti per le piccole cose, le altre in acconto; poi pagava alla fine del mese. Mia nonna era più fortunata di tanti altri, affittava gran parte dei suoi campi e questo le permetteva un tipo di vita appena migliore… solo un po’ migliore rispetto ad alcuni nella zona.
Che altro tipo di lavoro c’era nella zona?
C’erano dei ‘mulini’ [segherie] per tagliare la legna da costruzione. Ne ricordo uno che si chiamava Packrood Mill, impiegavano molte persone. Poi c’erano i ‘mulini’ per il cotone. Molti dei loro operai abitavano lontano [dal lavoro] e non potevano andare a casa ogni giorno dopo il lavoro per poi poter ritornare il mattino dopo. Mia nonna, come altre famiglie nella zona, affittava alcune camere a questi. Mi ricordo che uno di questi aveva con sé una chitarra e ogni tanto suonava e cantava quello che adesso chiamiamo il Country Blues, ma anche Spirituals. Questi suoni mi hanno impregnato come se fossi stato una spugna.
Ti hanno insegnato qualcosa? Cercavi di imparare?
No, non ancora e adesso mi rendo conto che non li ascoltavo con cura, con attenzione… magari, mentre suonava stavo giocando dentro o fuori casa. Il suono del Blues era tutt’intorno. Ti sto parlando di uno che affittava la camera ma ce n’erano altri che a volte venivano a suonare con lui.
Il suono del Blues faceva parte dell’atmosfera della casa.
Si, si potrebbe metterla così, faceva parte della mia vita senza me ne accorgessi e senza andarlo a cercare.
In questo periodo non hai mai tentato di suonare?
No. Ho incominciato a suonare molto più tardi. Ero circondato dal suono del Blues degli Spirituals ma è stato molto più tardi che cercato di suonare. Ma anche quando ho cominciato a suonare… non era una cosa seria. Per farti un esempio: capitava che uno di questi suonatori dovesse andare in bagno o fumarsi una sigaretta e mi passava la chitarra; io facevo del fracasso – non lo chiamerei suonare vero e proprio, però, in questa maniera, ho preso in mano parecchi tipi di chitarre ed ho incominciato così ad apprezzare i vari tipi di chitarra e come si tengono e cose del genere. Se oggi dovessi entrare in un negozio di chitarre, ci metterei pochissimo tempo a sceglierne una… anche a prima occhiata vedo subito se potrebbe andar bene per me o no, per le mie mani, voglio dire. Mi accorgo subito se la voglio oppure no e se questo è una delle cose che ho imparato allora, è stato senza che me ne sia accorto.
L’armonica la suonavi già da ragazzo.
Sì, ma all’inizio la usavo come un giocattolo, non avevo altri giocattoli. Suonare l’armonica, diciamo ‘seriamente’, non ho incominciato finche’ non sono ritornato ad Atlanta. Da ragazzo, quand’ero ancora da mia nonna ero molto libero di fare quello che volevo, andare in giro nella campagna e via dicendo. Avevo molta libertà, magari gironzolavo dal pomeriggio fino alla sera quand’era ora di cenare. Non mi diceva “devi fare questo e questo”. A dir la verità, ero un po’ viziato, per un semplice motivo, ero l’ultimo maschietto con il nome Johnson, in tutta la famiglia. Mio padre ha avuto solo me di figli e suo fratello, mio zio, fu ucciso anche giovane – non so come o perché’; già da ragazzo mi hanno messo in testa che stava a me continuare la stirpe (risata). [Il figlio primogenito di Larry Johnson, di nome Larry Johnson, Jr. abita nel Bronx, NY ma non ci sono notizie su di lui]. Questo mi faceva sentire importante e ne approfittavo con la nonna che non era per niente severa. Alcune volte rimanevo fuori lontano dalla casa fino dopo la cena, molto tardi senza dover subire troppi rimproveri. Mi diceva che era molto preoccupata e di non farlo più. Questo, forse, mi ha reso uno spirito libero, sono sempre, o quasi sempre andato e venuto a mio piacere.
Ritorniamo all’armonica. Nessuno ti ha insegnato?
Mi ricordo un nome: Smokey Hall. Mi insegnò “You gonna look like a monkey when you get old’. Mi ricordo che era una canzone comica e divertente e una delle prime che ho imparato. Altrimenti, piu’ che canzoni, imitavo i treni merci che passavano. Non la suonavo seriamente. Ho cominciato a suonare l’armonica veramente quando sono ritornato a vivere con mio padre in città, ad Atlanta. C’era anche il fatto che non voleva che suonassi il Blues. Sopportava che lo suonassero altri, ma non uno dei suoi (risata).
Tuo padre?
Assolutamente no! Al mio ritorno, a casa sua, la sua vita era cambiata; predicava e non voleva per niente saperne di musica Blues, specialmente in casa sua.
C’era molta musica nell’Atlanta di allora?
C’era musica dappertutto, nei locali, nei marciapiedi, agli incroci delle strade, nei mercati. Non potevi camminare una ventina di minuti senza incontrare un musicista o un piccolo gruppo di musicisti. Parlo delle zone dove c’era attività commerciale, dove c’erano negozi e gente che andava e veniva, non parlo delle zone dove la gente abitava [zona residenziale].
Hai conosciuto Piano Red.
Sì, l’ho conosciuto quando lui era già più ragazzotto di me, era adolescente, diciamo.
Come l’hai conosciuto?
L’ho conosciuto nel ’54-’53…? C’era un teatro on First Street,non tanto, tanto lontano da dove abitavamo e ogni sabato presentava uno spettacolo di talento nuovo e questo veniva messo in onda sulla radio. Nell’Atlanta di allora, il Blues era molto popolare, aveva una presenza molto forte. Lì presentavano anche nomi famosi come B.B. (King) e Gatemouth Brown. Se vincevi questo spettacolo che teneva il teatro… non mi ricordo il nome del teatro… se vincevi, ti presentavano anche al teatro Eighty One. Ho vinto un paio di volte io e un altro giovanotto di nome Luther Johnson, un mio amico, un chitarrista.
Lo stesso Luther Johnson che poi ha suonato con Muddy Waters?
No, questo era un altro Luther, non quello che poi ha suonato con Muddy.
Qualcuno che dal quale non si è più sentito parlare.
Proprio così.
Sei andato a scuola ad Atlanta?
Sono andato a scuola prima a Wrightsville e poi ad Atlanta. Dopo un po’ ho lasciato la scuola, voglio dire, una volta arrivato ad Atlanta. La scuola di Wrightsville era al modo vecchio… voglio dire… era una scuola dove era andato anche mio padre, era in una casa di legno, come quelle che vedi nei vecchi film. Anche il modo di insegnare era vecchio. Quando sono arrivato ad Atlanta mi hanno subito messo indietro di due anni (scolastici) e questo non l’ho accettato tanto bene, non mi andava proprio e dopo un po’ ho lasciato la scuola completamente. Quando ho lasciato ero nella decima classe (secondo anno del liceo americano). Adesso, tanti anni dopo, mi guardo indietro, specialmente dopo aver conosciuto (Gary) Davis e mi rendo conto di aver imparato la musica abbastanza bene e mi rendo conto che sono un tipo di persona al quale è difficile insegnare qualsiasi cosa ma alla fine imparo. E’ così ancora oggi, mi basta solo un po’ di tempo e poi, a modo mio, imparo.
Parecchio tempo fa mi avevi raccontato che da ragazzo gironzolavi con i tuoi amici.
Sempre in giro per la città (Atalanta). Ti viene in mente quella volta che ho incontrato Jimmy Witherspoon?
Esatto.
Avevo sedici anni, forse diciassette, era proprio l’anno che poi ho mollato la scuola. Ad Atlanta stavano costruendo un nuovo hotel, oggigiorno è un hotel per ragazze. Noi ragazzi andavamo lì per stare insieme tra di noi e c’era quest’uomo, a noi sembrava anziano ma adesso che ci ripenso non lo era, lo sembrava a noi perché’ eravamo ragazzi… beh, questo uomo che lavorava lì, ci vendeva la birra. Ovviamente non lo avrebbe dovuto fare. Comunque, ci andavamo per prenderci una birra, eravamo sempre i soliti quattro o cinque e adesso sono l’unico di quel gruppo ancora vivo. Gli altri sono tutti morti. Come stavo dicendo, in quel posto, quell’hotel c’erano sempre gruppi o orchestre che facevano le prove. Noi ragazzi aiutavamo i musicisti a scaricare i loro strumenti dalle loro macchine o autobus e glieli portavamo dentro l’hotel, per guadagnare qualche spicciolo di mancia, una di queste volte c’era Jimmy Witherspoon. Mentre faceva le prove, ha visto che eravamo lì a bere invece di essere a scuola, ha interrotto le prove ed è venuto da noi ragazzi per dirci di non sprecare il nostro tempo a bere e gironzolare, di stare a scuola, di imparare un mestiere. Mi ricordo di essere rimasto… impressionato dal suo modo di parlarci. Non è stato brusco, ce l’ha detto con le buone come se fosse stato un amico con più esperienza di noi. Né ci ha cacciati via; ci ha lasciati ascoltare le prove della band. Poi è ritornato a fare le prove pure lui e non mi sono mai dimenticato come si è messo a cantare quella canzone che per lui era già un successo – adesso non mi viene in mente il titolo… mi infastidisce che non mi viene in mente il titolo di quella canzone.
“Ain’t Nobody’s Business”?
“Ain’t Nobody’s Business”! Come stavo dicendo, è stato la prima persona di quel livello (celebre) a rivolgermi la parola e non me lo dimenticherò mai. Mi ricordo che ci aveva detto che non era affar suo cosa stavamo facendo noi ragazzi, stava a noi decidere. Anche durante le prove era vestito bene, scarpe lucide, aveva un comportamento professionale, movimenti mai bruschi, parlava con una voce calma, aveva classe – capisci?
Anche mio padre, quando parlava o predicava nella sua chiesa, parlava con una voce molto calma ed era sempre ben vestito. Non ho più pensato a queste cose per parecchi anni finchè non ho poi conosciuto Gary (Davis). Gary Davis è stato per me il più grande maestro, non solo musicale. Sul come comportarsi, come vivere, come parlare con il prossimo. La perdita di Gary è stata per me un cosa molto dura, questo lo sai benissimo anche tu.
Ritorniamo un momento ai tuoi giorni giovanili, al Rev. Gary Davis ci ritorneremo…
(interrompe) Certo, senza dubbio.
Una volta mi avevi detto che facevi dei piccoli lavori casuali…
Sì, certo. Ero molto indipendente anche da ragazzo. Giravo con un motorino per fare consegne. Lavoravo per una farmacia e facevo consegne per loro. Alcuni dei ragazzi rubacchiavano cose… cose da niente… ma questo non lo facevo, non era per me. Quegli spiccioli che avevo in tasca me li ero guadagnati e questo mi dava soddisfazione, mi andava bene così. Questo era merito di mio padre che mi ha cresciuto in quel modo e poi… e poi, se avesse saputo che avevo rubato qualcosa da qualcuno, anche dieci centesimi, mi avrebbe punito severamente.
Quando hai lasciato Atlanta?
A diciassette anni mi sono arruolato nella Marina (Militare), è stata la prima volta che ho lasciato Atlanta.
Dove sei andato?
Prima di tutto, mi sono arruolato perché’ volevo lasciare casa definitivamente e il più lontano possibile. Non andavo d’accordo con la mia matrigna, era sempre una lotta, sempre un subire. Mio padre cercava di mettere pace ma non c’era verso e quella donna non l’ho mai accettata come una madre. Vedevo come i miei coetanei erano trattati dalle loro madri e vedevo che io non ero trattato così da lei, per niente. Col crescere poi, sono diventato più ribelle e infine ho deciso di andarmene. Per fortuna ho deciso di arruolarmi alla Marina, chissà cosa sarebbe successo di me se avessi semplicemente lasciato casa, senza un mestiere e con un fagotto di roba sulla spalla per strada. Arruolarmi nella Marina è stata la miglior decisione della mia vita – guarda che è vero! Come veterano ho certi benefici che mi vengono incontro tutt’oggi, quando ho bisogno di un medico vado all’ospedale per i veterani e mi curano; come fare altrimenti?
Mio padre, oramai, mi sgridava pure lui perché non andavo più a scuola, a malapena andavo alla sua chiesa perché costretto. La guerra di Korea stava per finire e un mio vicino di casa, uno che aveva qualche anno più di me… si chiamava Junior, è morto non tanto tempo fa, era in Marina. Durante una sua visita a casa mi impressionò con la sua bella divisa e storie di enormi navi, diversi porti visitati a non finire… mi ha convinto ad arruolarmi e mi ha perfino accompagnato all’ufficio di arruolamento in Atlanta. Non è stato difficile. Mio padre pensò che fosse una buona idea e, dato che ero ancora minorenne, firmò a favore, dette il suo consenso. Feci il giuramento ad Augusta, Georgia e poi noi tutti presenti al giuramento siamo andati a San Diego, California, ci siamo andati viaggiando su un treno militare. Quella è stata la mia prima esperienza di far parte di un gruppo, e un gruppo numeroso, non un gruppetto di ragazzi come prima, senza scopo. Questa fu la mia prima esperienza mentre entravo nella fase di vita come adulto, come giovane adulto, non mi sentivo più un ragazzo.
Quanti anni sei rimasto nella Marina? Due?
Tre anni e qualche mese. Al congedo avevo vent’anni, quasi ventuno. Credevo di avere tutte le risposte, di essere pronto ad affrontare qualsiasi cosa, pensavo di essere capace di fare tante cose; ero giovane e mi sentivo pronto e capace di affrontare la vita. Ero capace di vivere con poco denaro in tasca, anche adesso vivo con poco denaro, questo non mi ha mai dato fastidio. Mi sono sempre accontentato di quel poco. Non avevo neanche paura di essere solo, di vivere da solo. La solitudine non mi disturbava. Dopo il congedo sono ritornato ad Atlanta. Gli amici di un tempo s’erano fatti una propria vita, lavoravano, erano sposati, avevano famiglia. Forse nella mia testa pensavo di ritrovarmi con loro come quando eravamo ragazzi ma questo non era più possibile. E neanche potevo vivere nella casa di mio padre; essendo stato via per alcuni anni, sai, ero cambiato ed ero molto più indipendente e certamente avevo un mio comportamento che era spesso scontroso. Questa situazione creò problemi, tanti problemi. In poco tempo ho cominciato a bere e poi a bere troppo, capisci? E così me ne sono andato da Atlanta.
Avevi intenzione di andare in un posto particolare?
New York City.
Come sei arrivato a questa decisione? Perché’ New York City?
Ne ho sempre sentito parlare. Per arrivare a New York ci è voluto un po’ di tempo, prima sono andato in Florida dove avevo parenti dalla parte di mia madre. Avevo la sensazione, non so perché’, mio padre volesse tenermi lontano da loro, non ho mai capito il perché’. Sono andato a Tampa, Florida. In quel periodo c’erano tensioni razziali in tutto il Sud e mio padre, sapendo che non mi sarei tirato indietro se provocato, ha voluto che lasciassi il Sud. Appena prima, morì mia nonna e mio padre decise di vendere quella poca proprietà che aveva; il Sud non era il posto migliore per noi e non lo è mai stato. Avendo girato l’America quando ero nella Marina ero più che mai convinto che non avrei potuto restare nel Sud; la moglie di mio padre (matrigna di LJ ndt) aveva una zia a New York, viveva sulla Settima Avenue. Arrivai finalmente a New York. Abitai lì per circa un mese. Incominciai a muovermi per conoscere gente. Ad Harlem, in quei tempi, c’erano diversi bar con clientela di origine specifica, dei diversi stati del Sud, e così via. Georgia, Carolina del Sud… Naturalmente, frequentavo il bar dove la clientela era della Georgia. Anni fa era ancora così per i Neri che erano dal Sud. Era un modo per sentirsi più protetti, non so…
Quando sei arrivato a NYC?
Nel ’57, quasi il ’58.
Sei arrivato direttamente a Harlem?
Sì, sì…
Com’era l’Harlem di allora?
Guardandomi indietro, l’Harlem di quell’epoca era alla coda, alla fine di quello che era stato negli anni ’40 e ’50. C’erano ancora alcune celebrità, come Nipsy Russell (comico di fama nazionale ndt) e poi c’erano ancora alcuni posti come il Palms Cafe’, Top Hat, Small’s Paradise, Top Club. Questi posti erano vicini alla loro fine e avevano visto tempi migliori già da tanto tempo, ma c’erano ancora. Questi posti erano molto famosi e conoscevo i loro nomi dai giornali, riviste e libri che avevo letto. Per noi, Harlem era la nostra perla culturale, sognavamo di visitarla, di viverci. Era il posto, uno dei pochi, non voglio dire l’unico… ma senza dubbio l’unico che aveva così tanta gente da tutto il Sud, un posto dove potevi venire e sentirti accettato, voglio dire rispettato e questo era un grande sollievo.
Torniamo alla musica per un attimo, già suonavi l’armonica quando sei arrivato a NY.
Sì, l’armonica l’ho sempre suonata, per tutti quegli anni, da quando ero ragazzo. L’armonica mi faceva compagnia, era di compagnia finché subentrò la chitarra. Ma la chitarra diventò subito una cosa seria, con ‘armonica non sapevo neppure una canzone dall’inizio alla fine… no, davvero. Al massimo, potevo accompagnare qualcuno con l’armonica ma non potevo suonare una canzone.
Che musica ascoltavi a Harlem? Hai conosciuto musicisti?
Come dicevo prima, quando sono arrivato a Harlem, l’epoca degli anni ’40 e ’50 stava per finire, c’erano ancora parecchie persone, quasi tutti del Sud, che suonavano il Blues. Si mettevano sugli scalini delle loro case, specialmente nelle serate d’estate. Suonavano quelle vecchie chitarre, a volte conciate male… non importava. Erano degli sconosciuti ma parecchi di loro suonavano molto bene e sapevano tante canzoni. Io, con la mia armonica, mi avvicinavo e li accompagnavo. In quegli anni ascoltavo i dischi di Jimmy Reed, uno dei miei preferiti, Muddy (Waters), T-Bone (Walker), Lightnin’ (Hopkins). Ad Harlem allora potevi trovare i loro dischi tutti i negozi di dischi li avevano e li suonavano dentro il negozio. Quello stile di Blues lo conoscevo fin da ragazzo ed era il mio stile di Blues, quello che suonicchiavo con l’armonica. Il Blues e il Rhythm n’ Blues era la musica di quell’epoca. Il cambiamento, la svolta, è stato nel 1960 e appena dopo.
Come te la cavavi a Harlem? Come vivevi? Hai detto che hai vissuto con una zia per circa un mese e poi?
Mi ha aiutato il mio bell’aspetto.
Spiegamelo. Credo di aver capito, ma spiegamelo comunque.
Mi vestivo bene, ero giovane, scapolo e le donne le attiravo come api al miele. Magari incontravo una donna, sempre più anziana di me, che lavorava come domestica e dormiva quasi tutta la settima dove lavorava e così avevo il suo appartamento a mia disposizione per quasi tutta la settimana, nessuno mi disturbava. Avevo chiavi per due o tre appartamenti e non ho mai dovuto pagare l’affitto. Poi facevo quei piccoli lavoretti quando mi capitavano e li cercavo per avere qualche soldo in tasca. Poi gli anni passarono anche per me (risata).
Avevi già incontrato Charles Walker?
Charles Walker è stato il primo vero e proprio musicista che incontrai.
Dove? come?
Tramite Bobby (Robinson ndt), nel suo negozio di dischi. La prima persona, diciamo di fama mondiale per il Blues, è stato Bobby. Bobby non era un musicista ma ha prodotto tanti dischi e conosceva tutti nel mondo del Blues e anche del Rhythm n’ Blues e tutti i musicisti sapevano di lui. E’ successo che mi ero imbattuto in un gruppo di persone che poi ho cominciato a frequentare, tutta gente più anziana di me e di un bel po’, persone che conoscevano persino Big Bill Broonzy. Broonzy era ancora in circolazione ma non l’ho conosciuto lì per lì. So che era ancora in giro perché’ c’era questa persona, Old Man Frog, che parlava di Broonzy molto spesso e quando Bill (Broonzy) veniva a NY, alloggiava da lui, a casa sua. Old Man Frog mi aveva sentito suonare l’armonica vicino a casa sua e ogni tanto mi invitava in casa a bere con lui. In quegli anni non fumavo (marijuana) ancora e neppure la coca. Quello è successo molto dopo, tutto quel casino è successo dopo la separazione da mia moglie e dalla mia famiglia. Credo di aver lasciato dietro di me il peggio di quel stile di vita, se uno vuol chiamarlo stile, mi mancava la mia famiglia e dopo la separazione me ne fregavo di tutto e di tutti. C’erano degli obiettivi che volevo raggiungere ma alla fine non c’era nessuno con cui condividerli. Questo è stato un colpo duro. Anche oggigiorno non mi va di suonare per lunghi periodi, per quale scopo? Per quale ragione? Non è che mi stanchi di essere stato bravo e tutte quelle storie. Quando scendi dal palco vuoi condividere quel poco di successo, quel momento con qualcun’altra persona, una persona con la quale hai un legame forte. Questo vuol dire tanto…
Torniamo indietro un attimo a Bobby Robinson. Come l’hai conosciuto e poi il fatto che ti ha anche registrato per la sua etichetta.
OK, allora questo tizio di cui ti stavo parlando, Old Man Frog, conosceva Big Bill Broonzy… e devi ricordarti di una cosa, ero ancora ventenne e le persone che frequentavo erano tutti più anziani di me, gente che era giovane negli anni ’30 quando il Blues era al suo massimo di popolarità e creatività. Un giovane con un forte e sincero interesse nel Blues era una cosa abbastanza rara. I giovani della mia età a Harlem ascoltavano James Brown e i suoi simili. Quando una persona anziana di questo gruppo mi conosceva e s’accorgeva che ero interessato alla musica che piaceva a lui, questo mi raccontava di cose che erano successe molti anni prima durante la sua gioventù. Questo interesse nel Blues, quando è condiviso, fornisce l’inizio di un’amicizia. Bobby (Robinson), in quei tempi, abitava vicino a questo anziano, sempre questo Old Man Frog, il quale aveva una chitarra. Io e lui ci mettevamo sugli scalini dove abitava e io suonavo l’armonica e lui la sua chitarra. Alcune volte suonavo un po’ di chitarra, sono sempre stato capace di suonare un po’ di Lightnin’ Hopkins, del suo stile, dal momento che ho preso in mano la chitarra. Un giorno, mentre eravamo lì a suonicchiare, ci capita Bobby e mi suggerisce di registrare un disco. Avevo già sentito parlare di Bobby, in quel punto era impegnato con i Pips (poi meglio conosciuto come Gladys Knight and the Pips ndt). Mi ha invitato al suo negozio di dischi e poi allo studio di registrazione. Bobby mi ha introdotto ad un gruppo di musicisti più giovani e Charles Walker faceva parte di questo gruppo. Appena dopo ho incominciato a suonare l’armonica con lui.
Poi avete registrato insieme per Bobby?
Sì, per Bobby.
Charles Walker ha sempre registrato per Bobby o anche per altri?
Questo non lo so; non so un granché’ su Charles Walker, so che anche lui veniva dallo stato della Georgia. Non parlavamo molto delle nostre cose personali.
Che stile aveva?
Suonava nello stile di Muddy Waters. Se avesse vissuto fino al Folk Revival avrebbe forse conosciuto il successo. Era capace di uno stile più largo di Muddy Waters.
Suonava la chitarra e armonica o solo chitarra?
Solo la chitarra.
Lo accompagnavi con l’armonica?
Sì, per un po’ di tempo, non mi ricordo per quanto tempo.
Ti ricordi le canzoni che hai registrato con lui? Canzoni che ti sono rimaste nel tuo repertorio?
Suonavamo “You know that ain’t right” e poi lui era capace di suonare qualsiasi brano di Muddy Waters. C’erano altre persone che registravano per Bobby, come Tarheel Slim e tanti altri, li ho conosciuti quasi tutti.
Che stile di armonica suonavi?
Non era lo stile che era popolare in quei tempi, non era lo stile di Little Walter, quello non era il mio stile. Il mio era acustico, simile a quello di Sonny Terry.
Cosa hai registrato per Bobby? Eri da solo o accompagnato?
Da solo.
Con la chitarra?
Con la chitarra. Suonavo cose dal Sud, non suonavo Ragtime come più tardi. Suonavo brani di Lightnin’ Hopkins, Jimmy Reed, mi piacevano molto e per Bobby ho registrato quei tipi di brani.
Erano per i 45 giri o un LP?
Questo non me lo ricordo, non mi ricordo le intenzioni di Bobby. A volte li stampava lui per le sue etichette, a volte registrava con l’intenzione di dare le registrazioni in licenza ad altre case discografiche. Penso di aver registrato 23 canzoni per Bobby, due LP per altre etichette e alcuni 45 giri. Erano tutte canzoni che conoscevo dalla mia gioventù. Anche adesso, quando ho l’occasione di registrare un LP, ci metto sempre canzoni che suono da una decina d’anni. Cerco di registrare canzoni che conosco bene e che ho avuto il tempo di re-interpretare a modo mio, quasi fossero le mie; che poi, lungo andare diventano le mie.
Come hai imparato a suonare la chitarra? Parlo di prima che conoscessi il Rev. Gary Davis.
All’inizio c’era un tizio, Luther Johnson, lui mi ha insegnato alcuni accordi. Ma qui a New York, c’era questo tizio che mi ha insegnato le cose principali riguardo il ritmo, si chiamava Buck… Non mi ricordo il cognome e Buck era probabilmente un soprannome e non il suo vero nome. Mi ha anche insegnato come muoversi da una posizione alla successiva sulla chitarra, prima di lui non sapevo farlo.
Era un Bluesman?
Era un Bluesman ma non ha mai registrato, la sua musica non la trovi in nessun disco. Ma era un Bluesman che suonava con feeling. Assolutamente. Suonava abbastanza bene ma chissà perché’ non è mai stato registrato. La competitività era intensa a quei tempi, forse Buck non ha voluto registrare. Buck veniva dal North Carolina e suonava nello stile di Blind Boy Fuller. Forse l’ha anche conosciuto, ma questa è solo una supposizione da parte mia.
Poi hai registrato “Larry and Hank”.
Per Sam Charters. Prestige. Nel ’59 o ’60. Appena ho registrato per Bobby… questo mi ha messo in circolazione, per così dire. Bobby aveva mandato le mie registrazioni in Inghilterra siamo all’inizio del Folk Revival e in questi anni ho iniziato ad andare nel Village (il Greenwich Village, NYC ndt) e ho cosi’ incominciato a conoscere tanti altri musicisti e Bluesmen… uh… cosa mi stavi chiedendo?
Parlavamo di Sam Charters e delle registrazioni per l’LP “Larry and Hank”.
OK, ti dirò come mi sono intromesso nella scena Folk. A quel punto avevo già conosciuto Gary (Davis). All’incirca del ’58, ,59, non ricordo l’anno con esattezza, ma l’avevo già conosciuto perché in quel giro a Harlem, avevo incontrato Eric Stuart. Eric era un vecchio amico di Davis. Ero ventenne, perciò Eric era forse cinquantenne o anche sessantenne. Siamo diventati amici e nei weekend andavo a casa sua dove suonavamo insieme: lui la chitarra e io l’armonica. Proprio uno di quei giorni, stranamente, Eric riceve una lettera da Pete Welding. Hai mai sentito parlare di lui?
Sì, produttore di dischi pure lui per la sua Testament Records.
Esatto. Ebbene, voleva che Eric facesse un disco perché’ Eric aveva già fatto dei dischi tanti anni prima con Cisco.
Cisco Houston?
Sì, lui, anche con Sonny Terry. Facevamo parte di quel giro di amicizie. Allora, stavo dicendo, Welding voleva fare un disco con Gary (Davis) ed Eric (Stuart), insieme. Adesso ti dico una cosa e non è per vantarmi, Davis era un po’ come me, nel senso che un altro chitarrista deve essere molto migliore di lui per interessarsene professionalmente – capisci cosa intendo dire? Eric non era un miglior chitarrista di Gary. Neanche per sogno, era bravo sì, ma non al livello di Gary! Eric, sul momento, non disse niente a Gary e disse a Pete (Welding) che voleva registrare con me. Poi Welding arrivò in città (NYC). Ricordati che frequentavo Davis – eravamo all’inizio della nostra amicizia e mi insegnava qualcosa ad ogni mia visita a casa sua, un accordo un giorno, come cambiare da uno all’altro, persino come tenere la chitarra, dove appoggiarla, come presentarla e suonarla, e questo, Eric lo sapeva e lo apprezzava. In seguito, Eric e Gary parlarono di fare quel disco ma Gary non ha voluto farlo perché Welding pagava troppo poco. Adesso… Welding arriva in città e viene a casa di Eric, sulla 121ma strada e lì, un sabato sera, abbiamo suonato io e Eric, e abbiamo tutti bevuto un bel po’ d’alcool. A Pete piaceva bere e fu lui a portare parecchie bottiglie, quella sera era anche accompagnato da una bella donna. Decise quella sera che Eric ed io avremmo fatto quel disco (gran risata fra di noi). Dato che Gary non voleva partecipare, Pete chiese la partecipazione di Big Joe Williams. Voleva metterci tutti nello stesso album o qualcosa di simile, non mi ricordo i dettagli.
Eri troppo ubriaco per ricordarti i dettagli…
Altroché’! (risata). E così questa faccenda mi ha portato in studio. Ho suonato l’armonica con Eric e con Big Joe Williams. Due giorni diversi. E questo mise il mio nome in circolazione. Il mio nome cominciò ad essere menzionato e la voce giunse a (Sam) Charters. Aveva sentito le registrazioni che avevo fatto con Eric e Big Joe Williams e pensava, ovviamente, che io suonassi solo l’armonica. A questo punto stavo già imparando seriamente da Gary, mi insegnava a casa sua e anche durante le sue performance. A casa sua c’era la lezione vera e propria, mentre dalle sue performance vedevo e sentivo come doveva funzionare tutto quello che mi aveva appena insegnato. Quando ho conosciuto Charters, a quel punto avevo un mio repertorio. Nel frattempo, io e Harry siamo diventati amici stretti, lui abitava a un isolato da me. Quando mi è stato chiesto di registrare e suonare l’armonica, ho detto che suonavo la chitarra e che non avrei voluto suonare l’armonica.
Ti ricordi alcuni dei titoli che hai registrato con Harry?
Solo una canzone, una canzone che mi è sempre piaciuta: “Ida, Sweeter than Apple Cider”. Mi è sempre piaciuta la tonalità di Eric, era solo la sua personalità, la sua tonalità. E poi eravamo amici. L’amicizia vuol dire tanto in questa cosa del Blues, sia sul palcoscenico che fuori.
(fine prima parte – vai alla seconda qui)
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