Cover Blues For Pino - Foto di Tommaso Lubrano

Osvaldo Di Dio è un chitarrista e compositore con un anima blues: nato a Napoli nel 1980, diplomato cum laude al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano con una tesi su Jimi Hendrix, è stato in tour con Franco Battiato, Eros Ramazzotti, Cristiano De André, Alice, Mario Venuti, Nina Zilli e molti altri. Oltre 7 dischi a suo nome e un singolare fiore all’occhiello: il 9 aprile 2022 prende parte alla cerimonia istituzionale di Procida 2022, Capitale italiana della cultura dove esegue la sua composizione Legni Paralleli in presenza del Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella.

Lo scorso 10 gennaio Osvaldo Di Dio ha pubblicato ‘Blues for Pino’, il disco-omaggio a Pino Daniele, meraviglioso tributo che vede la partecipazione di alcuni storici musicisti di Daniele (Gigi De Rienzo, Ernesto Vitolo, Lele Melotti, Rosario Jermano) e prestigiosi ospiti  (Peppe Barra, Robben Ford, Mario Insenga e Raiz).

Pubblicato da ODD Music e distribuito da Warner Music Italy, il disco è stato in parte registrato agli Eastcote Studios di Londra, con il contributo del fonico e produttore Chris Kimsey ed è stato presentato in due concerti accolti con entusiasmo da pubblico e critica lo scorso 5 gennaio al Teatro Nuovo di Martina Franca (TA) e al Blue Note di Milano lo scorso 9 gennaio con due set andati sold out in poche ore.

In questa occasione abbiamo incontrato Osvaldo Di Dio per una esauriente chiacchierata.

di Marco Basso

 

 

  • Come nasce questo progetto.

Pino per me è sempre stato un  riferimento, ascoltavo i suoi dischi fin da ragazzo e cercavo di tirare giù i suoi brani, come tutti i ragazzi negli anni 90, brani che erano molto complessi rispetto al pop tradizionale. Un’autentica palestra per me, anche perché difficili da suonare: era evidente che dentro c’era altro, c’era il blues, c’era il jazz, c’era una concezione dell’armonia di un certo tipo. E quindi mi costringevano ad approfondire l’uso degli accordi, le problematiche dell’armonia, paragonabili a quelle dei grandi maestri del Novecento come Antonio Carlos Jobim, per citarne uno. Da subito il mio legame con Pino mi ha portato ad affrontare la chitarra in un modo molto serio, così ho iniziato a prendere lezioni da giovanissimo, ho iniziato a studiare ore e ore per cercare di scovare i segreti che si nascondevano all’interno delle sue canzoni: quindi per prima cosa gli sono grato perchè mi ha fatto cominciare col piede giusto. Grazie a lui posso dire che ho scelto di fare il chitarrista nella vita. La duttilità che ho così acquisito mi ha permesso di essere molto richiesto come turnista da vari artisti, da Battiato a Cristiano De Andrè e Ramazzotti. E poi il 7 giugno 2018 ho avuto l’onore di partecipare al grande omaggio al genio di Pino allo stadio San Paolo di Napoli davanti a 60.000 persone e in diretta in prima serata su Rai Uno. In quella occasione ho conosciuto tutti i suoi storici collaboratori, consolidandone amicizia e stima. Nel 2023 nasce in me l’idea di dedicare un album specificatamente ai brani blues di Pino. Nessuno ci aveva mai pensato, lui stesso si definiva per prima cosa un chitarrista blues e lo si sente da come suonava il blues giovanissimo già su brani come Uè man: davvero si sentiva un nero a metà. L’idea è piaciuta ai suoi memorabili musicisti, gli stessi che insieme a lui hanno sviluppato successivamente uno stile influenzato da più generi. Hanno inciso con Pino i suoi dischi più importanti, dal primissimo disco Terra Mia del 1977 e poi in Pino Daniele, Nero a metà, Bella ‘mbriana, Ferry Boat, fino ad arrivare a Un uomo in blues, che Dio ti benedica, Non calpestare i fiori nel deserto.

Osvaldo Di Dio e Gigi De Rienzo - Foto di Martino Castellana

Posso dire di essere veramente orgoglioso che Gigi De Rienzo al basso, Ernesto Vitolo alle tastiere, Lele Melotti alla batteria e Rosario Jermano alle percussioni abbiano accettato di entrare con me nello studio Splash di Napoli, dove abbiamo registrato live, esattamente come vanno fatti i dischi di blues. La qualità, la genuinità e il desiderio di realizzare questo progetto ci hanno incentivato a lavorare insieme: immediatamente, alla prima sessione di prove, il sound della band era di grande impatto, sembravamo un gruppo coeso da sempre e non era per niente scontato, almeno per quanto riguarda il mio inserimento insieme a loro. Il risultato eccezionale di quella prima sessione di registrazione mi ha dato immediatamente la spinta nel cercare di alzare ulteriormente il livello, provando a interessare degli ospiti internazionali. Ho cercato dapprima di coinvolgere Eric Clapton: con Pino era legato fin dalla partecipazione a un Crossroads Guitar Festival, nel 2010 al Toyota Park di Chicago, e poi alla serata del 24 giugno 2011 a Cava dei Tirreni con il manifesto dell’evento che raffigurava una chitarra Fender con i volti dei due protagonisti. Purtroppo Clapton, per altri impegni, non ha potuto partecipare, ma gli spedirò il cd. Ho così chiesto a Robben Ford, altra formidabile chitarra, che ha accettato con entusiasmo; abbiamo fatto delle session agli Eastcote Studios di Londra seguiti da Chris Kimsey, leggendario produttore dei Rolling Stones, che ha registrato le mie voci e la chitarra di Robben. Poi ho coinvolto altri amici napoletani di Pino: Raiz, cantante degli Almamegretta, Peppe Barra, il più grande esponente vivente della tradizione partenopea, già membro della Nuova Compagnia di Canto Popolare e  Mario Insenga, voce dei Blue Stuff, nonché batterista del progetto Joe Sarnataro di Edoardo Bennato, quando anche lui si mise a fare il blues in napoletano. Il risultato è un disco davvero bellissimo che è stato distribuito da Warner Music Italy.

  • Secondo te il fatto di essere campano ti ha aiutato perché hai lo stesso dialetto di Pino?

Di questo ho avuto riscontro proprio quando mi sono confrontato con Chris Kimsey e con il manager di Eric Clapton, erano tutti molto incuriositi dal discorso del blues in napoletano e la cosa un po’ mi ha sorpreso: si soffermavano sull’uso del napoletano. A quel punto ho realizzato che è stato Renato Carosone, numero uno in tutto il mondo ancora prima di Elvis Presley, che ha reso celebre questa commistione di linguaggi: il connubio del blues, dello swing, della musica americana con Napoli e con il napoletano si fa e funziona dalla notte dei tempi.

Band di Blues for Pino + Raiz - Foto di  Martino Castellana

Band di Blues for Pino + Raiz – Foto di Martino Castellana

  • Poi c’è questo momento storico in cui Napoli sta vivendo un ciclo artisticamente, e non solo, molto positivo per tutta una serie di motivi.

Come diceva Massimo Troisi, raccontare Napoli nella sua totalità è praticamente impossibile e quindi ognuno ne racconta un pezzo. Anche per Pino Daniele vale la stessa cosa, è impossibile da raccontare tutta la sua musica o in qualche modo eseguirla in ogni sua sfaccettatura, perciò ho scelto di raccontare la sua anima blues, che penso fosse quella più radicata, perché l’ha accompagnato per tutta la sua carriera. Il napoletano si presta benissimo al blues, si presta benissimo alla musica di matrice afroamericana proprio perché è molto più simile all’inglese rispetto all’italiano. Poi sai, in Italia per chi vuole crearsi una credibilità col blues, la lingua è uno scoglio, quindi automaticamente risulta difficile essere considerati originali,  sembra sempre che si voglia fare qualcosa che non gli appartiene del tutto; a Napoli il blues e tutta la musica di tradizione afroamericana dal dopoguerra sono sempre stati di casa grazie ai tanti club frequentati dai soldati americani della base Nato di Bagnoli e marinai delle navi della Sesta Flotta attraccate al porto. C’è stata in qualche modo un’iniezione di blues, di musica afroamericana nella città di Napoli che ha portato a questo grande Big Bang che poi ha generato i Napoli Centrale, Pino Daniele, Tony Esposito, Edoardo Bennato e tutta una bellissima cultura musicale che si è venuta a creare a partire dagli anni 70.

  • Ora il disco è stato presentato, arriverà a breve una tournée e poi forse c’è una importantissima data che farete a Napoli.

No, a Napoli ancora no, nel senso che è stato annunciato un grande evento per Pino a settembre in Piazza Plebisito, però il cast non è stato ancora annunciato, ci saranno un sacco di ospiti, un sacco di amici nostri, di Pino che adesso non ti voglio anticipare, però sarà una grande festa. Spero tanto di esserci con i miei compagni di Blues for Pino.

  • Nel disco usi una chitarra particolare…

Assolutamente sì. Ho suonato la chitarra storica che ha usato Pino dall’80 all’82, la Gibson E.S., Electric Spanish 175, C.C., Charlie Christian, che aveva regalato a Ramazzotti e Eros me l’ha messa a disposizione per registrare il brano che chiude il disco,I got the blues.

  • Indubbiamente è stato molto complicato scegliere i brani perché ci sono tanti brani blues. Quindi qualcuno hai dovuto escluderlo, magari con dispiacere.

Questo lavoro potrebbe essere l’inizio di un percorso che necessita uno sviluppo con altri dischi, quindi non escludo che ci possa essere anche un volume 2, e perché no, un volume 3. Io ora mi sono concentrato sui primi quattro album di Pino che hanno un’impronta blues anche se non sempre sono in 12 misure come vorrebbe la tradizione. Quindi le canzoni sono state selezionate da li. Il primo singolo uscito in radio è ‘Yes i know my way’, brano molto iconico e contenuto nel disco ‘Vai mò’ del 1981. Alcuni brani sono stati completamente riarrangiati, non sono versioni originali. ‘A me me piace o blues’ che nella versione originale in realtà non è propriamente un blues, va più sul funky, è stato adattato in chiave puramente blues.

  • Ed è stato un lavoro di equipe o sei arrivato già tu con gli arrangiamenti fatti?

Per alcuni brani avevo già degli arrangiamenti fatti per altri è stato un lavoro collettivo.

Osvaldo Di Dio con chitarra Gibson ES-175CC - Foto di Marco Cattaneo

Osvaldo Di Dio con chitarra Gibson ES-175CC – Ffoto di Marco Cattaneo

  • Secondo te qual è stato lo scoglio più complicato da superare per questo progetto?

Ma se ti devo dire la verità non è che ci siano stati scogli da superare, perché sicuramente c’era la voglia di fare un lavoro bello, brillante, ineccepibile, anche nel mix e nel mastering c’è stato grande impegno, per un documento che spero possa restare nel tempo. Credo che alla fine ci siamo riusciti, sono molto contento del risultato finale e il fatto stesso che sia stato preso in catalogo dalla Warner ne è la prova definitiva.

  • La migliore gratificazione che hai ricevuto?

Guarda il complimento più grande è stato proprio il fatto che Gigi, Ernesto, Rosario e Lele abbiano accettato di prendere parte insieme a me a questo album. Loro che hanno sempre affiancato Pino mi hanno concesso di stare lì davanti: io suono la chitarra, canto e quindi il complimento più grande è stata la fiducia che mi hanno dato prendendo parte a questo progetto.

  • Tu sei sostanzialmente un musicista e qui invece ti sei voluto misurare con un cantato complesso, anche perché Pino aveva un timbro di voce assolutamente più unica che rara.

E’ questo il discorso, quando si ripropone Pino, il cerchio si restringe tantissimo: perché Pino era chitarrista, cantante napoletano e per poterti avvicinare al suo repertorio bisogna avere innanzitutto dimestichezza con il napoletano perché è proprio una lingua; se non hai queste prerogative non sei credibile. Come dicevo prima, il problema del blues è che se lo fai in italiano non funziona, se lo fai in inglese quella non è la tua lingua, quindi sei un po’ sospeso lì. E con Pino è la stessa cosa, se non sei napoletano, mi spiace, ma non lo puoi fare; canterai i brani che Pino ha scritto in italiano, perché poi anche lui ha cambiato strada e, da un certo punto in poi, è andato più verso la musica italiana. Per risponderti in base al discorso della sua vocalità, nei primi album lui non cantava così alto come poi ha iniziato a fare da un certo punto in poi. Io ho cantato i brani del periodo in cui veramente c’era questa commistione di blues e musica tradizionale napoletana. Qui la sua vocalità era sicuramente più alla mia portata. In realtà io ho sempre cantato, anche se sono ben più conosciuto come chitarrista.

  • È stato difficile approcciarsi con i musicisti storici di Pino? Tu sei di un’altra generazione, quindi probabilmente quando loro hanno incominciato a fare grandi numeri, tu eri un ragazzino.

A volte quelli con molta più esperienza di te sono un po’ titubanti, diciamo. Ma questa collaborazione è stata possibile grazie al fatto che ci siamo conosciuti in quell’evento del 2018, dove comunque erano coinvolti, all’interno delle varie band, alcuni dei più importanti turnisti della musica italiana: oltre a Melotti, Ernesto Vitolo, Gigi De Rienzo e Rosario Jermano, c’erano Agostino Marangolo, James Senese, Tullio de Piscopo, Paolo Costa, Giorgio Cocilovo, Luca Scarpa. Quindi il fatto che io fossi lì con loro, automaticamente mi ha reso uno di loro. Così il discorso dell’età a quel punto è andato in secondo piano perché il fatto di essere lì mi dava in qualche modo il passaporto per poter prendere parte a quel movimento musicale che poi si riassume in quel titolo che gli fu dato anni fa di Naples’ Power.

Osvaldo Di Dio con la sua Fender Stratocaster del 1962 - Foto di Francesco La Muro

  • Con una definizione molto sintetica, ti senti più jazzista, ti senti più bluesman, ti senti più legato a qualche ambiente musicale in particolare, oppure abbracci tutto con assoluto piacere e semplicità?

Io sono stato sempre molto curioso verso tanti generi musicali, però posso dirti sicuramente, e forse anche questo mi accomuna un po’ a Pino, che poi sono sempre tornato al blues, il genere che più mi sta addosso. Ho studiato il blues tradizionale ma anche quello più moderno, che mi affascina per l’aspetto tecnico e per la maggior consapevolezza nell’improvvisazione. Il blues è quel genere dove esprimo meglio la mia sensibilità e dove questa sensibilità arriva anche meglio al pubblico, perché tanti mi hanno detto ‘guarda mi piacciono tutte le cose che fai, però quando suoni il blues…’, e io mi lascio anche molto consigliare dalla sensibilità di chi mi ascolta, quindi assolutamente ti direi che per prima cosa mi sento un chitarrista blues, ma di blues moderno, perché non sono un musicista naif, e quindi il blues che io propongo è comunque moderno, più simile a musicisti come Robben Ford, che guarda caso poi ho coinvolto su questo disco.

  • Ecco, rispetto ai musicisti di blues che tu hai ascoltato e seguito, quali i tre nomi che secondo te sono imprescindibili?

Pur conoscendo benissimo B.B. King, Buddy Guy, Freddie King, tutto quel mondo, anche a livello generazionale sicuramente i chitarristi di matrice blues che più mi hanno influenzato e che tutt’ora porto nel cuore sono: prima di tutto Pino Daniele, per cosa è riuscito a inventarsi mantenendo forti le sue radici che poi sono anche le mie, poi Stevie Ray Vaughan, perché Stevie Ray, pure se deriva a sua volta da alcune matrici, per la mia generazione è stato proprio il faro. Stevie Ray è riuscito a riportare in auge il blues negli anni 80, quando in quel momento l’attenzione era un po’ scemata. E poi ti cito, anche se non è un chitarrista puramente blues, nel senso che si muove in un campo crossover con rock e addirittura rock progressivo, David Gilmour. Questi sono i miei tre riferimenti: Pino Daniele, SRV e David Gilmour. Poi se parliamo da un punto di vista puramente storico del blues è chiaro che il discorso cambia: come non prescindere da Jimi Hendrix e Albert King. Io ti ho risposto per quello che riguarda più la mia storia. Indubbiamente il blues, che ha una grossa matrice legata al sociale, al clima in cui è nato, in cui è cresciuto, non poteva non trovare in Napoli una città sensibile a questo tipo di malinconia, alla capacità di esprimere l’emozione e il sentimento in positivo e in negativo, capacità che la città di Napoli ha come forse pochissimi posti al mondo.

  • Oggi questa cultura esiste ancora tra i giovani, tra i gruppi che suonano adesso nei club a Napoli?

Pino Daniele è un maestro per tutti, anche per quelli delle generazioni più recenti. Negli ultimi anni, e non sono io il primo a dirlo, sicuramente l’hip hop può essere considerato come una costola del blues, perché comunque nasce da un malessere, una difficoltà dei neri americani che raccontavano le loro storie. Una volta usavano poveri strumenti e chitarre con poche corde ora con sample, con batterie elettroniche, ma sempre con questa esigenza di raccontare una storia. E questa cosa è arrivata anche a Napoli, è chiaro che adesso c’è un grandissimo movimento trap e rap a Napoli che parte proprio dalla periferia, con tutte le difficoltà sociali che esprime. Penso che tutto questo sia molto blues, anche se non strettamente legato al genere per come lo conosciamo.

 

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