Tommy Castro – Playing with my friends
di Matteo Bossi
“Buongiorno!” esclama (in italiano) Tommy Castro appena compare sullo schermo per la nostra conversazione via Zoom, “la scorsa estate abbiamo suonato in Sardegna e in un altro festival a Pignola, abbiamo passato lì qualche giorno, una piccola città con un buon ristorante, ogni sera abbiamo mangiato come se facessimo parte di una grande famiglia italiana!” Ci fa indubbiamente piacere che Castro e i suoi compagni si siano divertiti durante il tempo trascorso in Italia, almeno quanto si divertono a suonare dal vivo davanti al loro pubblico. E loro sono sempre stati una hard working band, che ha macinato centinaia di concerti guadagnandosi il rispetto di tutti semplicemente “killin’ it live”, come recitava il titolo di un loro live album del 2019. Il nuovo lavoro, “Closer To The Bone” (leggi qui la recensione), in uscita su Alligator, è molto permeato da questa sensazione “dal vivo in studio”, anche grazie all’alchimia tra lui, i Painkillers e un produttore di talento come Kid Andersen, il disco è infatti stato inciso al suo studio Greaseland.
Una impostazione ben diversa da quella adottato per l’album precedente, come conferma lo stesso Castro. “Sì, A Bluesman Came To Town era una sorta di concept, il che richiedeva un approccio un po’ più pulito da blues moderno/contemporaneo. Per la storia che stavo raccontando, gli stili differenti e Tom (Hambridge ndt) era molto coinvolto nelle storie e nella scrittura con me e sono molto felice di quel disco e di come è andato. Ma quel che mi piace fare è che ogni disco sia diverso dal precedente. Perciò eccoci qui, a fare qualcosa di diverso, direi quasi all’estremo opposto, come tipo di produzione. Kid è davvero geniale, cosa riesce a fare nel suo studio casalingo, un piccolo spazio con migliaia di strumenti, e lui li sa suonare tutti…e conosce la musica in ogni ambito, è un esperto di musica tradizionale, blues tradizionale e non soltanto. Non credo ci sia nessuno che conosca come Kid ogni sottigliezza quando si tratta di blues della vecchia scuola. Ed è stato molto divertente farlo. Devo dire che questo è un disco tanto mio quanto di Kid, abbiamo davvero lavorato insieme e mi ha spinto molto ad essere più autentico possibile.
Durante il lavoro in studio?
Si, per esempio, nel processo di registrazione di solito si usa suonare la canzone con la band, si registra tutto e poi rifai quasi sempre le parti vocali per ragioni tecniche e a volte anche le parti di chitarra. In alcuni casi tutto l’album si fa in questo modo. In questo caso, eccetto forse tre brani in cui ho lavorato sulla chitarra in un secondo momento, tutto il resto è fatto dal vivo in studio. Io e Kid ne discutevamo di continuo, “voglio migliorarla”, gli dicevo, “è perfetta così”, ribatteva lui. A volte sembra ci sia un’esitazione, un errore o qualcosa del genere, ma in realtà contribuisce alla sensazione dal vivo, perciò l’abbiamo lasciata. Nello slow blues, “Crazy Woman Blues”, a un certo punto suono una nota ed esclamo “ahh”, perché non era proprio quello che volevo fare, ma andava bene…e lui l’ha lasciato. Era in pratica un errore che abbiamo tenuto, ma se ascolti i vecchi dischi di blues di cose del genere ce ne sono un sacco.
Sui dischi di Buddy Guy e Junior Wells, ad esempio.
Oh certo, e le lasciavano sempre. Oppure hai presente “Blues With A Feeling”? Ad un certo punto della registrazione sembra sbaglino la forma. E quindi i musicisti di blues tradizionale devono decidere, quando la suonano, se suonarla nel modo corretto, come intendevano fare o invece riprodurre l’errore. È una scelta che devi fare se sei un band leader. Una decisione personale, ma il punto è che i dischi sono stati fatti così, tantissimi grandi album, e tutte queste piccole cose non fanno altro che renderli più interessanti. Insomma, è una lunga storia e per renderla ancora più lunga…io e Kid abbiamo discusso di come restare autentici, non lasciare che il mio perfezionismo si mettesse in mezzo. È stato un processo interessante e alla fine sono convinto che abbiamo fatto le scelte giuste.
Si suona davvero come un disco dal vivo. E per quanto riguarda le canzoni? Ce ne sono alcune tue ma altre dal repertorio di Wynonie Harriso o Jimmy Nolen, un chitarrista probabilmente sottovalutato.
Vero, e molti lo conoscono perché ha suonato la chitarra per James Brown, a essere onesti anche io lo conoscevo soprattutto per questo…era un maestro della ritmica funky alla chitarra. E quel tipo di ritmica la suono tuttora, ce l’ho nel sangue. Non so se dipendesse da lui o da James Brown ma suonava quella parte per tutta la canzone, senza cambiare mai, fino al bridge almeno, suonando una parte che ha il giusto feeling, dentro il groove, per tutto il pezzo. Come chitarrista, suono la ritmica nella mia band, suono una parte che si adatta al groove della canzone e tendo a fare la stessa cosa. Non sento il bisogno di fare per forza qualcosa di diverso. Non che ci sia nulla di sbagliato nel farlo, ma penso sia bello ci sia qualcuno così disciplinato e attento al groove che non lo fa. Mi piace questo di lui. Ed era quello che sapevo prima di suonare questo brano. Per dirti la verità, sono stato aiutato nel selezionare le canzoni da uno storico del blues, un mio amico che è anche un grande amico di Bruce Iglauer ed ha prodotto molti dischi, il suo nome è Dick Shurman. Gli ho detto, “hey senti, cerco alcune canzoni che non sono mai state rifatte o non troppo comunque”. E lui ha suggerito alcuni titoli. E anche il boss, Bruce Iglauer, ne ha suggerite altre. A mia volta ho ascoltato molte cose, sapevo che per questo tipo di album non serviva fare tutte canzoni originali, forse sarebbe stato meglio per le royalties ma non mi preoccupo di questo, volevo proprio fare un disco di un certo tipo.
E hai inciso anche canzoni di tuoi amici come Johnny Nitro o Chris Cain.
E Ron Thompson! Ragazzi della Bay Area, musicisti che mi hanno ispirato nello stesso modo di Freddie King, Albert King o chiunque altro stessi ascoltando. Ho la stessa considerazione per Chris Cain o Ron Thompson che per gli altri grandi artisti. Perciò, ho pensato, ci sono alcune loro canzoni che mi piacciono e di sicuro nessun altro ha registrato…anche se quella di Ron Thompson è in pratica una cosa sullo stile di Elmore James, ma era questo che Ron faceva, il suo stile si rifaceva parecchio ad Elmore James anche se lui poteva andare avanti variando per giorni, suonando giri su giri di assolo diversi. Io non ho le stesse capacità di Ron, ma ho una affinità per questo tipo di shuffle, abbiamo suonato la canzone dal vivo, per divertimento e mi sono dettto, “mettiamola sul disco”. Davvero, abbiamo inciso “Freight Train” perché l’abbiamo suonata dal vivo in concerto poco prima. In studio l’abbiamo suonata una sola volta, ed è stata quella buona e la cosa ti consente di risparmiare molto tempo!
È stato un progetto divertente, ma ho lavorato più di quanto avevo preventivato. Kid prendeva una chitarra, la attaccava all’ampli, me la passava e mi diceva, “suona questa”, abbiamo sperimentato così. Sul pezzo di Johnny “Guitar” Watson suono con un capotasto, cosa che non faccio mai e senza plettro, cosa che ogni tanto faccio, ma non molto, non per tutta la durata della canzone. E questo è stato interessante. Mi ha trovato una chitarra adatta per quel brano, un Gibson 330 degli anni Sessanta, appena ho suonato la prima nota ho detto, “è questo il suono giusto”. Sono successe altre belle cose del genere.
Alcune di queste canzoni verrebbero bene anche in acustico, è una situazione in cui suoni a volte?
Oh si, ogni tanto tengo un concerto acustico, anche se di rado, ne ho in programma uno a San Francisco in maggio. Cerco di trovarmi a mio agio sul palco anche in questa modalità. Non l’ho mai fatto prima. Conosco diversi chitarristi che lavorano in modo da poter vivere suonando in acustico, anche perché talvolta non si riesce ad avere l’intera band e allora optano per uno show acustico. Lo fanno in tanti. Keb’ Mo’ tiene diversi concerti acustici ed è anche la situazione in cui lo preferisco…Per me però suonare acustico è qualcosa che facevo a casa, seduto sul divano. E durante la pandemia ho avuto più tempo.
Ti racconto una storia al riguardo, nei primi giorni della pandemia c’era ancora molta paura ed ero un po’ preoccupato per Taj Mahal, che è un amico, parlavamo spesso sulle blues cruise…così ho telefonato a qualcuno che poteva sapere come stesse e lasciato un messaggio. Il giorno dopo suona il telefono, rispondo ed era un tizio che parlava in portoghese. Penso abbia sbagliato e riattacco. Ma poi richiama e mi fa, “sono Taj!” Sa che sono di origine portoghese e mi prende in giro perché non lo parlo, dice che dovrei imparare, così mi parla in portoghese apposta per questo. È stato bello parlare con lui, abbiamo avuto altre conversazioni al telefono ed è stato illuminante su molte cose che mi piacciono. Ho sempre voluto imparare a suonare Piedmont country blues in fingerstyle, ma è davvero difficile e ci vuole molto tempo per poterlo fare bene. Lui mi ha ispirato, ricordo di avergli detto, “non so, amico, a questo punto della mia vita è troppo tardi per imparare questa roba. Faccio davvero fatica.” E lui mi fa, “hey, altri lo hanno fatto, puoi riuscirci anche tu!” E così mi esercito, ci lavoro e cerco di migliorare. Ma ci sono altre tipologie di blues acustico che posso suonare, nello stile di Lightnin’ Hopkins e molte delle mie canzoni, ne ho abbastanza per mettere insieme un bel concerto acustico.
Il tuo amico e compagno di etichetta Tinsley Ellis ha realizzato un album acustico ed è andato in tour con Marcia Ball, potresti fare qualcosa del genere con la tua compagna, Deanna Bogart?
Oh ma lo abbiamo fatto! Io e Deanna abbiamo tenuto un paio di concerti insieme, è sempre una possibilità. Ma ora col nuovo disco in uscita io e la band saremo molto occupati. È un progetto spontaneo senza essere troppo ambizioso e alcune di queste canzoni sono blues semplici e diretti.
La spontaneità si percepisce anche all’ascolto, senza dubbio. È qualcosa che ha a che fare con la comunità che orbita attorno a Greaseland, visto che ci suonano Jim Pugh, Chris Cain o i Sons Of Soul Revivers.
Sì e come sai io ci sono cresciuto a San Jose, dove si trova Greaseland…e tutti questi musicisti sono miei amici. Per “Hole In The Wall” ho pensato ci sarebbe stato bene Jim Pugh all’organo, lui conosce il gospel davvero bene e dal punto di vista musicale il brano si avvicina ai quartetti gospel, per questo abbiamo chiamato i Sons ai cori. Cose del genere. Chris ha suonato il piano sul pezzo di Ray Charles, perché forse non tutti sanno che Chris sa suonare il piano e se vuole lo fa proprio come Ray Charles…ho pensato, “ragazzi, non è giusto!” Lui sa suonare la chitarra così e pure il piano! Non è solo questione di abilità, è che quando suona la chitarra nessuno suona come lui. Fa qualcosa che lo distingue dagli altri. Puoi sentire alcune influenze, B.B. King, Albert King e Larry Carlton o Robben Ford, ma mette insieme il tutto e viene fuori con un suo stile. E non ha mai cambiato, suona una 335 in un piccolo ampli, senza effetti o pedali…non sente l’esigenza di cambiare chitarra, ottiene il suo splendido suono dalle dita e da questo semplice setup. Ed è così da quando l’ho sentito la prima volta, negli anni Ottanta.
Eri anche sul suo ultimo album, avete cantato insieme un brano, “Thankful”, un duetto alla Sam & Dave.
Oh hai ragione! Me ne ero dimenticato, ma sì, ho registrato quella parte vocale sul suo disco, un’altra cosa della famiglia Greaseland! Ricordo che Kid mi ha chiamato dicendo, “hey, sarai in città? Vorrei che passassi di qua per cantare una parte sul disco di Chris Cain”. “Certo che posso farlo”, gli ho detto.
Johnny Nitro è stato tuo amico e mentore, eppure questa è la prima volta che registri una sua canzone.
Sì, è stata la prima volta. Ma è una cosa cui ho pensato spesso, anche quando era ancora vivo volevo farlo. Ma poi si sono succeduti vari dischi e ogni volta c’erano molte persone coinvolte, la scrittura delle canzoni…alla fine non è mai successo. Così quando è arrivato il momento di fare questo disco ho pensato, beh c’è una canzone di Nitro che ho sempre amato ed è perfetta per quel che stiamo facendo e così abbiamo inciso “One More Night”. Ed ho avuto questa chitarra da lui (Castro la mostra in video), la mia Fender Stratocaster del 1966, c’è persino un articolo su Vintage Guitar Magazine su di lei. Stanno pubblicando un articolo su di me e questa chitarra. Una sera andai ad un concerto, prima ancora di suonare coi Dynatones, suonavo il lunedì sera a San Francisco con la band di Johnny Nitro, perché il suo armonicista non voleva suonare il lunedì, voleva la serata libera. E così Johnny mi disse, “hey, vuoi suonare con noi li lunedì sera?” “Certamente”, gli risposi e quindi diventai un Door Slammer il lunedì. Aveva questa chitarra e una sera mi disse, “la vendo a un tizio che viene stasera”. “Oh, no, è talmente bella non venderla”. Insomma, ne abbiamo parlato per un po’ e abbiamo trovato un accordo, mi ha fatto un buon prezzo e io gli diedi in cambio anche la mia Strato anni Settanta un po’ rovinata cui non ero per nulla legato. La usavo in concerto e andava bene, tutto qui. Lo pagai e da allora la chitarra è rimasta sempre con me, è la mia preferita.
La usi ancora in concerto?
Ora sì, ma l’avevo ritirata per un po’, perché mi era stata rubata e quando l’ho recuperata l’ho messa sotto il letto e l’ho lasciata lì. Mi dicevo, “non la porto più in giro, non la porto in aereo né la lascio in una macchina… non voglio correre rischi, perché tengo tantissimo a questa chitarra, specialmente dopo la scomparsa di Nitro.” Poi sono passati dieci anni, sono nella nuova casa con Deanna e da quando ci siamo trasferiti lì la chitarra è in un armadio. E ogni tanto vado in quell’armadio a cercare altre cose e la vedo lì, in un angolo, nella sua custodia. E mi sono immaginato che la chitarra fosse triste di restarsene in quell’armadio senza essere suonata. L’ho pensato davvero ma poi ho richiuso la porta, “non essere sciocco”, mi sono detto, “è una chitarra, non ha mica dei sentimenti!”. Ma dopo un po’ l’idea è riaffiorata che fosse sbagliato lasciarla lì, dovevo riprendere a suonarla…ed è la miglior decisione che abbia mai preso per quanto riguarda le chitarre. Avevo dimenticato quanto fosse parte di me. La sensazione è veramente perfetta, anche se non so di preciso di cosa sia fatto il manico. L’ho suonata anche sul nuovo album, eccetto per la slide e per il brano di Johnny “Guitar” Watson e forse in quello di Ray Charles ho usato una 335 che Kid aveva lì, ma altrimenti ho usato la mia.
Hai lavorato con Jim Gaines, che è scomparso di recente. Ha prodotto “Can’t Keep A Good Man Down” e “Right As Rain”. Credo l’ultimo album cui ha lavorato sia stato quello del tuo amico Ronnie Baker Brooks.
Jim ha avuto una carriera incredibile ed era davvero una bella persona con cui lavorare, molto umile anche se era un produttore famoso, Stevie Ray Vaughan, Santana…e quasi tutti gli artisti blues. Un grande produttore e un tecnico, era anche ingegnere del suono. Ma il suo primo lavoro alla Stax, ce lo ha raccontato lui, era asciugare il pavimento ogni volta che Otis Redding finiva di cantare, perché Otis sudava tantissimo e il pavimento era impregnato del suo sudore! Che grande storia, sembra quasi di vederla. Una volta è stato incaricato di passare in rassegna tutti vecchi nastri e vedere cosa ci fosse su. Non sapevano di preciso cosa fosse registrato su ognuno di essi e così lui dovette ascoltare e catalogare queste cose alla Stax. Ha fatto un disco con noi e aveva già lavorato con la band di cui facevo parte, i Dynatones, e ovviamente con Huey Lewis & The News, che all’epoca erano molto popolari. Perciò quando i ragazzi della Blind Pig ce lo hanno raccomandato abbiamo detto, “oh Jim Gaines, certo, ma dite sul serio?” Per quanto riguarda Ronnie, sono molto orgoglioso di lui. Ha circa dieci anni meno di me ma allo stesso tempo lo sento come un fratello maggiore…è un bluesman da quando aveva tre anni, ho imparato molto da lui, siamo buoni amici e consiglio il suo disco. Ronnie ha sempre voluto fare i suoi dischi e lo ha fatto, ma sono contento che lui e Bruce abbiano trovato un accordo, è una cosa buona tanto per Bruce quanto per Ronnie, considerata l’esperienza di aver lavorato con suo padre per così tanti anni…erano tempi interessanti per Alligator, si vendevano molti dischi e tutti questi grandi artisti blues registravano per loro. E Lonnie Brooks ne faceva parte ed anche Ronnie era coinvolto, dunque averlo di nuovo intorno è una buona cosa.
Tu e Ronnie, come altri artisti della vostra generazione, pensiamo a Rick Estrin o Billy Branch che suonano sull’album, avete imparato a suonare in un contesto differente rispetto a quel che succede oggi.
Sì, se guardi la mia pagina Facebook, qualche tempo fa ho pubblicato un video in cui mi esercito su un disco…ora uso il computer, Youtube e ci sono molti altri modi di fare pratica, con tutta la tecnologia. Ma ai vecchi tempi, quando ero un ragazzino, avevo solo un giradischi e una chitarra. Ed era tutto. Il video l’ho messo per dare un esempio di quel che facevo. Sono contento ci sia ancora in giro gente come noi, che ha imparato in questa maniera, senza la tecnologia. Oggi non ha senso fare come se non ci fosse, la uso anche io la tecnologia, può essere d’aiuto se, ad esempio, devo suonare sul disco di un amico in Inghilterra non devo andarci per forza. Ho appena registrato un contributo per il disco di Krissy Matthews e gliel’ho mandato. Sono tempi diversi ma noi siamo ancora legati a questo tipo di apprendimento. E poi l’altro aspetto era che tu passavi le conoscenze ai tuoi amici e loro facevano lo stesso con te. Molti amici mi hanno davvero insegnato a suonare da ragazzo, non ho mai preso lezioni di chitarra, la mia famiglia non poteva permetterselo. Ascoltavo soltanto i dischi e cercavo di capire come fare. E gli amici mi aiutavano dicendo, “non stai suonando l’accordo giusto, è quest’altro”, “oh wow”, rispondevo, e da allora quell’insegnamento è rimasto. Mi ricordo ancora di quando un mio amico, Eddie Van Hagen, un ragazzo del mio quartiere, mi insegnò un accordo di nona, che è probabilmente l’accordo che tuttora uso di più. Ed ero solo un ragazzino di undici o dodici anni, non ero ancora nemmeno arrivato a suonare in garage!
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