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Cincinnati piano blues

di Matteo Bossi

L’arte del piano blues in anni recenti ha visto assottigliarsi la schiera dei suoi adepti, certamente molto ridotti numericamente rispetto a chitarristi e armonicisti. Per questo è davvero una bella notizia la presenza sulle scene di un musicista come Ben Levin, dotato di evidente talento di pianista, cantante e compositore e in più animato da una genuina passione per la storia e cultura del blues. Peraltro, sono tutti elementi che emergono dalle registrazioni o performance live di questo venticinquenne di Cincinnati, Ohio. E di incisioni, in rapporto all’età, ne ha già effettuate diverse, avendo cominciato con “Ben’s Blues” a diciassette anni e proseguito con una serie di album per la Vizztone, collaborando spesso con diversi altri artisti.  Ne abbiamo parlato con lui via Zoom  lo scorso dicembre.

Il tuo ultimo album, “Holiday Blues Revue”, un disco di canzoni natalizie, per le festività.

Sì, è un progetto cui ho lavorato dal 2019, da quando ho pubblicato il primo singolo natalizio, “Forgot Mrs Clause”, col mio amico e grande chitarrista giapponese Takuto Asano, alla chitarra. Da allora ho messo almeno un pezzo natalizio su ognuno dei miei dischi. Su “Take Your Time” avevo inserito un brano con Lil’ Jimmy Reed intitolato “Lump Of Coal”…perciò dando seguito a quelle session, lo scorso anno ho deciso che volevo davvero fare un intero Christmas album. Sono sempre stato ispirato da classiche incisioni blues di Natale di artisti quali Charles Brown, Amos Milburn, Freddie King, Roy Milton e cose del genere. Volevo fare qualcosa di simile, rievocando il periodo dagli anni Quaranta ai Sessanta. Mi sono divertito molto a lavorarci. E abbiamo avuto alcuni ospiti speciali. Lil’ Ed suona un bello shuffle Chicago blues, Lil’ Jimmy Red uno slow blues downhome, mentre Sonny Hill, un veterano di Cincinnati che era solito esibirsi nel Chitlin Circuit, canta un brano soul blues. Sonny anni addietro è andato in tour con Gatemouth Brown ed anche con Slim Harpo. È un altro artista che ha una forte connessione con la storia e l’eredità culturale di questa musica. E amo la performance vocale di Candice Ivory su “Christmas Mood”, perché molti degli artisti che ammiro hanno questo mix di influenze blues e jazz, cosa che anche Candice possiede, venendo da Memphis ma avendo trascorso del tempo a New York cantando jazz. Per questo era perfetta per quella canzone.

Come vi siete conosciuti con Candice?

Penso ci siamo incontrati grazie alla Pinetop Perkins Foundation. Ero da quelle parti e lei nello stesso periodo stava lavorando a Memphis e Clarksdale. Abbiamo iniziato a collaborare negli ultimi anni, tenendo alcuni concerti…ed è sempre bello lavorare con lei. Come sai, il suo ultimo progetto discografico  era un tributo a Memphis Minnie e in alcuni concerti abbiamo suonato i brani di quel disco, il che è stato molto divertente.

Alcune canzoni del disco mi hanno ricordato certe cose dello stile di Charles Brown. Lui era noto per aver cantato diverse canzoni natalizie e il suo primo Christmas album uscì nel 1961 per la King Records, che aveva sede nella tua città, Cincinnnati.

Sì e sono sempre stato affascinato dalla ricca storia locale…Un grande mentore e amico per me è stato Philip Paul, che ha suonato la batteria su tutte le registrazioni che Charles Brown ha fatto alla King. Avere questa connessione con Philip è stato davvero speciale e lui raccontava di continuo storie sui suoi tempi in studio alla King. E oggi lavoro regolarmente con Walter Cash Jr, bassita che ha lavorato a sua volta dal vivo con Charles Brown quando viveva a Cincinnati a fine anni Sessanta/inizio Settanta. Ci sono molti grandi musicisti qui ed è un onore per me avere un legame con loro.

ben levin philip paul

Ben Levin & Philip Paul

Oltre alla King all’epoca c’erano anche etichette più piccole a Cincinnati quali Fraternity  o Jewel, una scena piuttosto florida.

Sì, ed è proprio per questo che aver questa connessione con un tipo come Walter è così speciale. Walter ha suonato con noi per gli ultimi tre anni, abbiamo tenuto un concerto di quattro ore lo scorso sabato e suona lo stesso basso che aveva ai tempi della scuola elementare, nel 1959!

So che hai studiato storia al college, perciò oltre a dividere il palco con loro, hai potuto documentare le storie delle loro vite?

Sì, ho passato diverso tempo a raccogliere interviste formali con molti musicisti, in particolare i più anziani. Ho scritto alcuni articoli per Blues Blast Magazine e lavoro alla pubblicazione di altri basati sulle interviste con musicisti come Philip Paul e Walter Cash.

 Un altro tuo mentore è stato Ricky Nye.

Oh sì, ci siamo visti proprio ieri. Non ci vedevamo da un po’ e abbiamo recuperato. Conosco Ricky da quando avevo otto anni! Sono stato a casa sua ogni settimana per anni, per le lezioni. Mi ha davvero ispirato e aiutato a sviluppare l’amore per questa musica, nello specifico il piano blues. Mi sedevo nel suo studio, dove ha due pianoforti, lo guardavo suonare qualcosa e rimanevo a bocca aperta…Ricky è tuttora uno dei miei pianisti preferiti. Si definisce “roots piano player”, è un grande pianista blues, ma sa anche suonare jazz e boogie woogie, perciò studiare con lui è stata una delle cose migliori per me e per la mia carriera musicale. Devo davvero ringraziarlo, rendergli merito per avermi fornito gli strumenti per studiare e imparare il piano blues e avermi incoraggiato a trovare un mio stile. Non potrei dire abbastanza cose positive di Ricky.

Quindi è stato tramite Ricky o anche tramite tuo padre cha hai scoperto i grandi pianisti blues del passato?

Direi che ovviamente devo a mio padre la passione per la musica inizialmente, la metteva sempre a casa o in macchina…aveva un CD di Freddie King in macchina. E ascoltava alcuni pianisti, come Professor Longhair. Però per quanto riguarda i pianisti di “deep blues” è stato Ricky che mi ha fatto conoscere Otis Spann,Pinetop o Little Brother Montgomery. Per molto tempo Ricky mi mandava a casa con dei compiti, “ascolta questo pianista”, mi diceva, di chiunque si trattasse, diciamo Sunnyland Slim, “torna settimana prossima e parleremo dei loro stili, licks e di come suonano”. È stato molto formativo.

Perché il piano? Tuo padre è un chitarrista…

Oh, ho cercato di imparare la chitarra…mio papà mi ha mostrato alcuni accordi e parti ritmiche, ma non me la sentivo del tutto, non mi veniva naturale. Avevamo un piano verticale a casa e qualcosa di quello strumento mi parlava, mi sembrava una cosa del tutto naturale sedermi al piano e suonare. Molti musicisti dicono che, a prescindere da quale strumento suoni, il piano è il migliore per comporre, perché tutte le note sono lì di fronte a te. E lo capisco, è una cosa che ha senso anche per me. Suono il piano da anni e nell’ultimo anno e mezzo ho iniziato a cimentarmi con l’organo Hammond, mi hanno molto ispirato i combo soul /jazz come Groove Holmes o Jimmy Smith. A Columbus, Ohio, viveva un grande organista jazz di nome Hank Marr…sono cose che mi ispirano e poi mi piace fare qualcosa di diverso. Nell’album ho suonato l’Hammond su “Skating” e “Christmas Mood”.

Quando hai iniziato a suonare il piano hai provato altri stili che ti piacevano e poi ad un certo punto sei passato al blues? Come sono andate le cose?

È una grande domanda. Mi fa tornare indietro con i ricordi. So che nella mia prima lezione con Ricky parlammo di cose semplici, le strutture degli accordi, le scale, in modo che io potessi avere una solida base. Quando avevo otto anni abbiamo suonato anche musica pop…mio padre amava il blues  ma anche il rock classico dei suoi anni giovanili. Ricordo di avere passato del tempo a studiare un pezzo di Elton John. Poi Ricky, nel corso del primo anni, forse anche nei primi mesi, mi ha insegnato la struttura base dei blues a 12 battute…facevamo esercizi per la mano sinistra e poi abbiamo lavorato su idee e riff da eseguire con la destra. Scrisse un piccolo tema, una cosa simile a quanto avrebbe potuto fare Jimmy Yancey e disse, “intitoliamola Ben’s Blues”. Ed ha finito per dare il titolo al mio primo album del 2017. Poi, una volta che ho capito questo, siamo passati al boogie woogie e quello è stato entusiasmante. Al Blues Fest di Cincinnati c’era un palco apposta per il piano blues e boogie woogie, chiamato The Arches, ci hanno suonato pianisti da tutto il mondo. Ed io andavo a questi house parties, prima del Festival, dove c’erano una decina di pianisti fantastici che si alternavano per tutta la sera in un soggiorno. Guardavo ammirato uno che suonava un boogie alla Albert Ammons alla velocità della luce seguito da un altro che invece proponeva un downhome blues  alla Otis Spann…assistere a tutto questo ha fatto sì che sviluppassi un amore per questa musica. Ho avuto modo di ascoltare le registrazioni classiche e di vederle dal vivo, il che credo sia importante, mi ha fatto capire che questa musica conta ancora molto, non è solo qualcosa da un vecchio disco.

 Sei riuscito a vedere dal vivo alcuni pianisti blues della vecchia generazione?

Purtroppo, non ho mai avuto l’occasione di avvicinare pianisti della generazione di Pinetop Perkins…Ho quasi incontrato Henry Gray, ma poi l’ho perso, poco prima che se ne andasse. Quando ho iniziato ad interessarmi a questa musica molti dei pianisti blues se ne erano già andati, come Big Joe Duskin o H Bomb Ferguson. Philip Paul ha lavorato con molti grandi pianisti e sono fortunato ad avere avuto questa connessione con lui. E ovviamente anche con uno come Bob Stroger, che ho conosciuto tramite la Pinetop Perkins Foundation ed ha, a sua volta, suonato con tantissimi pianisti. Lo scorso anno sono andato a Bentonia e ho tenuto alcuni concerti con Jimmy Duck Holmes, un grande onore per me e spero di tornarci quest’anno. Per quanto riguarda i pianisti però devo dire che ho potuto conoscere da vicino un vecchio pianista, anche se non suona blues ma jazz, essendo influenzato da Erroll Garner e Oscar Peterson. Il suo nome è Mr Frank Payne, ha 102 anni, ora vive in una casa di riposo ed è un  tipo eccezionale! Mi ha raccontato di aver perso le registrazioni che aveva fatto con Lonnie Johnson, allora ho fatto una ricerca sulle discografie, recuperato le incisioni e gliele ho copiate su CD, in modo che potesse condividerle con amici e parenti. Qualche giorno dopo ho ricevuto una telefonata, era Frank, “Ben,” mi ha detto, “ti ringrazio per avermi portato questi CD ma su alcune registrazioni non sono io a suonare!” Ho pensato che fosse formidabile, questo è successo un paio d’anni fa, aveva già cent’anni. Domani suonerò alla sua casa di riposo.

Hai conosciuto Erwin Helfer?

No, non ho mai avuto l’opportunità di incontrarlo, ma vado a Chicago un paio di volte l’anno, è qualcosa che devo proprio fare.

 

Nick Moss & Ben Levin

Ben Levin & Nick Moss Lucerne Blues Festival 2024 foto Philippe Prétet

Parlando di Chicago, hai suonato con artisti come Nick Moss, Lil’ Ed, The Cash Box Kings o Tom Holland, che tipo di esperienza è collaborare e adattarsi al loro repertorio?

Mi piace molto collaborare con altri artisti. È cominciato tutto qualche anno fa, quando mi è stato chiesto di organizzare una serie di concerti all’Hard Rock Casino di Cincinnati. Mi hanno detto, “Ben, vogliamo che tu organizzi un Blues Brunch ogni domenica per i prossimi due mesi”. Così ho fatto e ogni settimana avevamo un artista diverso. Ecco come sono entrato in contatto per la prima volta con Lil’ Jimmy Reed, l’ho invitato in città e abbiamo tenuto alcuni concerti e registrato qualcosa. E poi Bob Stroger, Johnny Burgin…è stato divertente. E ora lo è altrettanto ritrovarsi con alcuni di loro, di tanto in tanto ricevo una chiamata, “hey, siamo vicini a Cincinnati, ci piacerebbe lavorare con te”. Lo scorso anno i Cash Box Kings erano a Columbus e decisero di aggiungere una data al tour e venire a Cincinnati. È stato bello perché hanno già una pianista, Lee Kanehira, perciò io e Lee ci siamo scambiati le parti, ho suonato io il piano e lei  l’organo e poi abbiamo fatto cambio. Ed è stato forte. Con Nick Moss o Tom Holland ho una grande occasione di immergermi nel repertorio di Chicago blues. E adoro il Chicago blues, c’è sempre nei mie concerti, ma suonarlo con loro che sono proprio di Chicago è un’esperienza diversa.

Come hai trovato il tuo stile al canto? Sembra molto naturale, talvolta ricorda un po’ Charles Brown.

Lo apprezzo, grazi, da quando ero molto giovane ho sempre avuto delle melodie in testa…canticchio tutto il giorno in pratica. Ed ho iniziato a suonare dal vivo a undici anni con la band di mio papà, l’occasione perfetta per affinare le mie capacità al piano e al canto. All’inizio mio padre mi lasciava il microfono per una o due canzoni. Io osservavo il suo modo di cantare e di intrattenere il pubblico…qualcuno mi diceva, “oh, la tua voce suona come un mix tra tuto padre e Ricky”. E beh la cosa aveva senso perché erano i due cantanti che ho ascoltato di più. Poi quando ho cominciato ad essere il leader della band e a scavare più a fondo nel repertorio blues…hai citato Charles Brown ed ho sempre amato il suo modo di cantare e suonare, così naturale e privo di forzature. Cerco di avere un qualità simile ma non vorrei suonare come un imitatore, voglio assorbire il suo stile e incorporarlo nel mio. Mi piacciono molto anche altri cantanti come Percy Mayfield o shouter come Wynonie Harris e Roy Brown, mi sento ispirato dall’energia che portavano davanti ad un microfono. Ma la lista di grandi cantanti è infinita…

Anche nelle tue composizioni c’è talvolta un tocco della tradizione di piano blues di New Orleans, di qualcuno come Professor Longhair o Huey Piano Smith.

Oh si, non potrei parlare del piano blues senza citare il New Orleans piano! Sono stato ossessionato da Professor Longhair per parecchio tempo…mi ricordo che andavo da Ricky a lezione e gli dicevo, “possiamo lavorare su questo pezzo?” E lui rispondeva, “Ben, abbiamo lavorato su un sacco di roba di Professor Longhair ultimamente, perché non proviamo qualcos’altro?”. Ho visto il film “Piano Players Rarely Ever Play Together”, Ricky me lo regalò per un mio compleanno e vederlo è stato…voglio dire come può non piacerti? Un tipo che canta, fischietta e fa lo yodel, scalcia col piede di fianco al piano per tenere il tempo…ha l’approccio più particolare tra tutti quelli che ho mai sentito finora. Il suo stile al piano e al canto è  sempre stato fonte di ispirazione. Da adolescente ho visto dal vivo Dr John qui a Cincinnati ed è stato veramente bello. Hai citato Huey Piano Smith e la sua band, The Clowns, era divertentissima…Uno dei miei ingaggi abituali a Cincinnati, il più lungo che abbia avuto, da dieci anni suono in un posto chiamato BrewRiver Creole Kitchen, qui suono “Big Chief”, “Going To The Mardi Gras” e pezzi di Fats Domino…è un ristorante dove servono piatti e cocktail tipici di New Orleans, così suono un po’ di New Orleans Rhythm and Blues.

Conosci Jon Cleary, che suona spesso in quello stile?

Non ci siamo mai incontrati, ma ovviamente conosco lui e le sue registrazioni, un grande musicista, davvero un pianista mostruoso. Però al palco The Arches di cui parlavo prima il batterista ogni anno era Johnny Vidacovich, che ha suonato con Professor Longhair su “Crawfish Fiest”…e ricordo una volta, a dodici anni, stavo suonando una rhumba  al piano ad un house party, lui mi ha preso da parte e poi mi ha detto, “hey Ben, mi piace come hai suonato questa roba di ‘Fess!”

Puoi raccontare com’è nato l’album che hai prodotto di Lil’ Jimmy Reed?

È venuto ad un Blues Brunch ed è stato un’ispirazione. Abbiamo fatto una session in studio e abbiamo registrato “Lump Of Coal” e “I’ve Been Drinkning Muddy Water”. Jimmy è pieno di energia, quando l’ho contattato gli ho detto che avevo in programma due concerti e un day off per riposare, ma lui mi ha risposto, “cosa? Lavoriamo, amico, trova altri concerti!”. Così gli ho detto, “beh, d’accordo allora”, e sono riuscito a trovare un altro concerto. Jimmy sul palco è davvero molto animato e di tanto in tanto si infiamma proprio…molta gente vede il suo nome e tende a pensare “oh, dev’essere un tributo o qualcuno che suona come Jimmy Reed”. E in parte è vero, sa suonare l’armonica e cantare in uno stile molto vicino a quello di Reed, ma la sua chitarra è molto potente, mi ricorda Magic Slim o Little Milton. E dunqua ci siamo detti, facciamo un intero album. Lo abbiamo invitato di nuovo e abbiamo preso contatto con Sallie Bengtson della Nola Blues Records. E lei era molto interessata al progetto. Lo abbiamo inciso in due giorni a Cincinnati, ho scritto alcune canzoni, mio padre anche e poi alcune delle cover preferite di Jimmy…ed è stato molto divertente. Abbiamo semplicemente suonato come si trattasse di un concerto dal vivo. È un professionista esperto, è facile lavorare con lui. Sono molto fiero di questo progetto. E Jimmy non è un tipo timido, se c’è qualcosa che non gli piace per quanto riguarda la musica ce lo faceva sapere…Non in modo ruvido, ma per la chitarra ritmica ha idee molto precise, vuole questa sorta di parte ritmica alla Eddie Taylor, come nei dischi di Jimmy Reed, questo e la batteria che deve essere suonata in un certo modo e il lavoro del basso. Quando suono con lui è come essere la ciliegia sopra la torta, cerco di trovare degli spazi tra il suo cantato e gli strumenti. Penso che prima di andare in studio avevamo suonato abbastanza insieme perché si sentisse a suo agio.

E hai lavorato anche con tuo padre.

Si, suoniamo insieme da tanto tempo ed è bello per entrambi fare un passo indietro dal centro del palco e fare un lavoro di squadra supportando qualcuno come Jimmy. Siamo felici che ci sia lui sotto i riflettori. Per anni mio padre ha guidato la band e pian piano, mentre crescevo come cantante e performer, mi ha dato modo di cantare e guidare la band. A quindici anni ho cominciato ad essere il leader del mio gruppo, a volte con lui e altre senza. È stato un grande punto di riferimento per me e molto generoso nel condividere il palco, mi ha detto che è stato contento di cedermi la responsabilità di essere il band leader. Ora lavoriamo semplicemente insieme, venerdì scorso, quando abbiamo suonato, gli ho detto, “hey, vuoi cantarne una tu?” Era quasi la chiusura di un cerchio. Mi piace moltissimo suonare sul palco con mio padre, è una delle cose più belle, con nessun altro ho una connessione simile, è difficile da spiegare. Ed entrambi non vogliamo fare i clown ma nemmeno essere troppo seri.

 Il tuo album di qualche anno fa, “Still Here”, nasce dopo che tuo padre si è ripreso dal Covid.

Si, quello è stato un periodo molto difficile per la nostra famiglia. È stato quattro anni fa e lui è stato un mese in ospedale, non eravamo sicuri ce l’avrebbe fatta. Un miracolo sia sopravvissuto abbia recuperato le forze e le capacità di fare tutto ciò che ama fare. Lavora ancora come professore all’università e suona ancora. Quando era convalescente, si era svegliato dal coma ma non era in grado di fare nulla da solo, mia mamma gli diceva, come una specie di mantra, “sei ancora qui”. Parole che gli hanno dato forza e lo hanno aiutato a riprendersi. Quando è uscito dell’ospedale non aveva nemmeno la forza nelle dita per suonare la chitarra…ha dovuto fare esercizi per recuperare.

 Sei andato al college, continuerai i tuoi studi a livello accademico?

Si e penso di riprendere gli studi, mi piacerebbe prendere un PhD e poter insegnare a livello di College, come mio padre ed avere una carriera che tiene insieme musica e storia. E continuare a suonare dal vivo. Ci sono alcune persone che mi hanno ispirato in tal senso, oltre a mio padre, un musicista, il Dr Steve Tracy, che ha insegnato per anni letteratura inglese e la abbina al blues, ha persino scritto un libro sulla storia del blues a Cincinnati. Mi piacerebbe fare qualcosa di simile in futuro. O qualuno come il Dr. David Evans…l’ho appena incontrato di persona la scorsa settimana, che persona stimolante. E tornerò in Europa la prossima estate, mi piacerebbe venire anche in Italia, non ci sono mai stato. Sto lavorando ad un singolo che uscirà prossimamente e tornerò in studio per un altro album. Insomma, ci sono all’orizzonte molte altre registrazioni divertenti! Spero di arrivare a novant’anni e suonare ancora regolarmente.

Info: https://benlevinpiano.com/home


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