In questo inizio d’anno si susseguono le notizie tristi relative alla scomparsa di artisti a noi cari, pensiamo ovviamente a Garth Hudson, ultimo superstite dell’irripetibile avventura di The Band e di Barry Goldberg, avvenuta lo scorso 22 gennaio. Goldberg, in questi giorni di massiccia campagna promozionale del film di Mangold sul giovane Dylan, è stato ricordato, anche dai media americani, per la sua partecipazione allo storico concerto in elettrico al festival di Newport nel 1965. Un momento certamente importante ma riduttivo per un cammino, quello di Goldberg in ambito musicale, cominciato molto presto, da adolescente a Chicago con la scoperta del blues e l’amicizia con un compagno di liceo contagiato dalla stessa passione, Michael Bloomfield. I due sono tra i pochi ragazzi bianchi a bazzicare i locali del South Side per vedere i loro eroi, Muddy Wateres, Howlin’ Wolf o Otis Rush e talvolta perfino a suonare con loro. Una stagione rievocata, in anni recenti, anche tramite il documentario “Born In Chicago”, che fotografa una fase cruciale per le carriere sia degli artisti afroamericani sia di giovani quali Paul Butterfield, Nick Gravenites, Charlie Musselwhite, Steve Miller o Corky Siegel.
Goldberg, tastierista di gran talento, si troverà spesso accanto all’amico Bloomfield, sia nella breve ma ispirata parentesi della Electric Flag e compare anche nelle “Super Session” accreditate a Bloomfield, Kooper e Stills. In parallelo pubblica anche alcuni album solisti, occasioni di suonare di ritrovarsi a suonare liberamente con gli amici. Pensiamo che in “Blowin’ Your Mind” c’erano Charlie Musselwhite e Harvey Mandel o al molto valido “Two Jews Blues”, registrato in parte a Muscle Shoals. Qui si segnala partecipazione di Bloomfield, che per ragioni contrattuali compariva con lo pseudonimo Great, ma anche di Duane Allman e Eddie Hinton in altri brani. Altrettanto si può ben dire per l’album intitolato semplicemente con il suo nome, uscito su ATCO nel 1974 e coprodotto nientemeno che da Jerry Wexler e Bob Dylan. Un gran disco, inciso anch’ esso a Muscle Shoals che conteneva, tra le altre cose, sue versioni di due brani molto fortunati e molto ripresi“(I’ve Got To Use) My Imagination” e “It’s Not The Spotlight”, scritti con Gerry Goffin.
Se la sua carriera solista di lì in avanti si è fatta meno regolare, non bisogna dimenticare quella di sessionman e soprattutto di produttore per altri, come Musselwhite, James Cotton oppure due album per il soulman Percy Sledge tra cui l’ottimo “Blue Night” (1994) di cui andava particolarmente contento. In anni più recenti si era divertito a realizzare due dischi con Stephen Stills, Kenny Wayne Shepherd e Chris Layton nel gruppo The Rides e soprattutto suonando con i vecchi amici nella revue chiamata Chicago Blues Reunion. Si trattava di un ensemble aperto comprendente talvolta Nick Gravenites, Tracy Nelson, Harvey Mandel o Corky Siegel. Ricordiamo ancora la performance di Goldberg e Gravenites a cui avevamo assistito al festival di Lucerna nel 2019, animata semplicemente dal piacere di suonare insieme la musica che più gli piaceva e con lo stesso entusiasmo che avevano da ragazzini decadi orsono. E oltre ad un lascito musicale corposo, è forse proprio questo aspetto della passione viscerale e incessante per questa musica ad aver contraddistinto Barry Goldberg e tanti artisti della sua generazione.
Matteo Bossi
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