James Baldwin: Jimmy’s blues
di Matteo Bossi
Negli ultimi anni la figura di James Baldwin ha avuto una riscoperta, pensiamo al bellissimo documentario di Raoul Peck, “I’m Not Your Negro” (Il Blues n. 140) o ad un film tratto da un suo romanzo, “If Beale Street Could Talk”, diretto da Barry Jenkins. Quest’anno poi, complice il centenario della nascita, anche in Italia l’editore Fandango ha intrapreso la riedizione integrale delle sue opere e attorno ad esse sono nate altre iniziative, presentazioni, convegni, podcast.
Negli Stati Uniti la sua figura è tornata a rivestire una influenza costante dopo un periodo, gli anni Ottanta e Novanta in cui era probabilmente meno letto e studiato. Una componente è forse legata alle dinamiche della società americana, nuove generazioni di artisti, intellettuali e attivisti traggono ispirazione da lui e dai suoi scritti, interrogandosi sulle medesime tematiche. Valgano da esempi il saggio “Tra me il Mondo” di Ta-Nehisi Coates (in italiano per le edizioni Codice) che anche dal punto di vista formale (la lettera) deve parecchio a Baldwin.
O pochi anni fa, la raccolta di contributi di diversi scrittori e scrittrici, come Isabel Wilkerson e Claudia Rankine, curati e introdotti da Jesmyn Ward intitolata “The Fire This Time- A New Generation Speaks About Race”, con una esplicita citazione fin dal titolo del celebre saggio di Baldwin del 1963. La Ward spiega come sia stata la rilettura di Baldwin nel periodo successivo all’uccisione di Trayvon Martin a segnarla e che l’elaborazione e il conforto apportato dalle parole contenute nella lettera al nipote inclusa appunto ne “La prossima volta il fuoco”, scritta cento anni dopo il proclama dell’emancipazione, non hanno perso nulla della loro verità: “tu sarai distrutto se crederai davvero di essere quello che il mondo dei bianchi chiama un nigger. Ti parlo così perché ti voglio bene e ti prego di non dimenticarlo mai”. O ancora e persino più diretto, “Occorre una grande tempra morale per non odiare colui che ti schiaccia sotto il peso del suo odio e un miracolo ancor più grande di intuizione e carità per non insegnare l’odio ai propri figli”.
Come hanno sottolineato tanti osservatori la lucidità e l’eloquenza della sua scrittura sono caratteristiche che rendono quasi profetica la sua voce, fatta di una integrità e di una chiarezza cui forse non siamo più avvezzi, in un presente improntato sovente alla vuota retorica o al conformismo. Baldwin, come ci aveva raccontato un altro suo ammiratore, il Reverend Sekou era figlio della chiesa afroamericana e questo ha influito sulla sua formazione, “ha lasciato la chiesa, ma la chiesa non lo ha mai lasciato. La sua scrittura ha i toni delle chiese pentecostali nere e attinge alla tradizione in tutto il suo genio e bellezza” (Il Blues n. 147). Echeggiano alla mente altre parole di Baldwin, “così stando le cose non c’è alcuna possibilità che la situazione dei neri cambi, a meno che non cambi radicalmente e profondamente l’intera struttura sociale e politica americana.”
C’è musicalità nella scrittura di Baldwin e nella sua visione del mondo, basta rileggere un altro suo saggio edito su Playboy nel 1964, “The Uses Of The Blues”, Baldwin scrive che il titolo non si riferisce alla musica di cui premette (ma non è proprio così, anzi) di non sapere nulla, “piuttosto si riferisce”, scrive, “all’esperienza della vita stessa, allo stato d’essere, da cui vengono fuori i blues”. E di come essi siano fatti di lavoro, amore, morte, inondazioni, linciaggi…siano cominciati alle aste degli schiavi e abbiano le radici nella schiavitù.” E ancora, “l’angoscia che si ritrova nei blues e la sua espressione, crea anche, per quanto possa sembrare strano, una sorta di gioia”. Prosegue citando canzoni di Bessie Smith, Dinah Washington o Billie Holiday…e suggerendo un “trionfo, un trionfo molto poco americano… (i blues) commentano un’esperienza un po’ dal di fuori, la accettavano quasi distaccandosene…uno sguardo rivolto insieme all’interno e all’esterno”. E risiede forse proprio in questo passaggio insieme lirico e dialettico una delle chiavi della visione del mondo di Baldwin. “Voglio parlare dei blues non perché parlino di questa particolare esperienza di vita e questo stato d’essere, ma perché contengono una forza che rende esprimibile questa stessa esperienza”.
Ed è la stessa che si ritrova nelle sue pagine, spesso influenzate dall’ascolto di alcuni dei suoi artisti preferiti, quali Mahalia Jackson, Nina Simone, Miles Davis (dei quali divenne amico, spesso venivano a trovarlo nella sua casa di Saint-Paul-de-Vence) o Ray Charles, con cui tenne una performance alla Carnegie Hall nel 1973. In fondo, come ha detto in una intervista Cornel West, “il blues è l’elemento che tiene insieme tutte le componenti contraddittorie della sua anima. Il fare i conti con la catastrofe, eppure rispondere a questa stessa catastrofe con incredibile stile, coraggio, compassione e persino con un sorriso.” Sono questi, gli aspetti indagati da Ed Pavlic, docente alla University Of Georgia, nel suo “Who Can Afford To Improvise?”. Un lavoro che esplora la correlazione stretta e costante tra Baldwin e la black music in senso ampio (blues, jazz, gospel, soul, R&B…) e il suo lavoro di scrittura, la sua voce e come questo riverbera. Una rilettura per molti versi rivelatrice, in primis dal punto di vista del testo, della parola, ben sapendo che attraverso il canto il linguaggio riesce ad assumere possibilità e piani di senso, colori, toni e timbri, del tutto diversi dallo scritto. E non meno importante per la visione che da esso, forse inevitabilmente, deriva e viene proiettata. Ma Pavlic non si limita ad applicare questa lettura ai saggi in cui Baldwin ha scritto di musica, ma ha, per così dire, intuito che la sua scrittura avesse tratti musicali a prescindere dal soggetto. Una chiave interpretativa all’interno della quale acquistano un peso e forse un senso diverso, angolature e dissonanze, mettendo il lettore nella posizione di ascoltare e rispondere come ad un canto, sul ritmo della vita.
E questa stessa attitudine radicale contraddistingue Baldwin, il suo non fare sconti, non scegliere la via della popolarità bensì quella della verità, spesso scomoda, proprio per questo più difficile da disinnescare. La sua era la prospettiva del figlio di un pastore di Harlem, gay dichiarato, trasferitosi in Francia alla fine degli anni Quaranta, ma poi tornato nel suo paese regolarmente e schierato in prima linea nel movimento per i diritti civili, con marce, discorsi, dibattiti, l’adesione al CORE (Congress for Racial Equality) i frequenti viaggi nel Sud, in Alabama, North Carolina, Louisiana e Mississippi…Sapeva fin troppo bene che “quello di cui ci dobbiamo rendere conto è che per i neri in questo paese, non esiste un codice legale. Siamo ancora governati, se questa è la parola, dal codice degli schiavi”. Parole che suonano simili a quelle che W.E.B. DuBois aveva scritto in una sua opera del 1935, “gli schiavi erano stati liberati, sono rimasti al sole per un breve momento e poi sono stati riportati in schiavitù” (“Black Reconstruction in America”). Amiri Baraka fu tra coloro che presero la parola nella cerimonia funebre tenutasi a New York nel 1987, accostava Baldwin a Martin Luther King e Malcolm X e lo paragonava proprio a DuBois per gli attacchi subiti essendo allo stesso tempo un attivista e un maestro di pensiero e linguaggio. “Parlo di quello che ti succede se hai appena scampato il suicidio, la morte, la follia e guardi i tuoi figli crescere e non importa quello che fai o quello che sei, resti inerme contro la forza di un mondo che dice a tuo figlio che non ha nessun diritto di vivere. E nessun discorso progressista, nessuna serie di dibattiti per determinare l’ampiezza e la natura dei nostri progressi, contribuirà in alcun modo a lenire questo dilemma o indicare una via per risolverlo.”
Un nuovo inizio è quello di cui scrive Eddie S. Glaude Jr, docente nella prestigiosa università di Princeton, nel suo “Begin Again – James Baldwin’s America and Its Urgent Lessons For Our Own” (Crown). Combinando elementi di biografia, memoir, saggio critico e analisi dei testi di Baldwin, Glaude approda ad un testo interessante per comprendere le dinamiche in atto e quelle passate. La fase odierna rappresenta infatti, agli occhi dell’autore, un terzo momento chiave. Il primo lo identifica nel periodo della ricostruzione post-guerra civile e il secondo nel periodo delle lotte degli anni Cinquanta /Sessanta condotte dal movimento per i diritti civili. Ma, scrive Glaude, “è oggi ancor più necessario fare i conti con la menzogna che già Baldwin individuava e che risale ai fondatori dell’America e pervade la società americana. L’idea, cioè, che la vita dei bianchi conti di più e che siano appunto stati sempre i bianchi a definire cosa sia un uomo e in virtù di questo sia stato loro consentito trattare gli altri (gli afroamericani in primis) come subumani. E questa cornice ha finito per inquadrare il modo in cui l’America bianca vede sé stessa e di conseguenza gli afroamericani, fornendo una completa autoassoluzione per i propri crimini. In questo senso la voce di Baldwin raccontava una verità, nel senso greco del termine, il disvelamento della menzogna”. E aggiunge Glaude il tradimento continuo di queste possibilità di apertura o quanto meno di inversione di tendenza, dopo la guerra civile con la segregazione e le leggi Jim Crow e dopo gli anni Sessanta con Nixon prima e Reagan poi. Non ci sono molte differenze, purtroppo, tra le morti di Breonna Taylor, Ahmaud Arbery, George Floyd e le immagini di quaranta o cinquanta anni fa che Baldwin vedeva davanti ai propri occhi. Glaude lascia che il suo sentiero sia illuminato dal suo pensiero, avendo lui affrontato la stessa oscurità. Paragona la posizione di Baldwin a quella di un bluesman ad un bivio che vede diverse possibilità, diverse strade. Rilegge i saggi degli anni Settanta, come “No Name In The Street”, forse meno noti, eppure significativi perché l’autore faceva i conti con i postumi dell’omicidio di King e la frantumazione che aveva comportato sul piano personale (tentò il suicidio nel 1969) e generale per l’America.
Baldwin seppe cogliere i segni che si sarebbero manifestati appieno negli anni successivi, il sistema di incarcerazione di massa, la repressione e il (dis)funzionamento dell’apparato di giustizia. Istanze che un movimento come Black Lives Matter ha poi fatto proprie. Si fece testimone delle storie di chi era sopravvissuto e doveva in qualche modo accettarlo, non soltanto di chi aveva perso la vita. “Baldwin diceva che gli esseri umani sono allo stesso tempo miracoli e disastri. Dobbiamo proteggerci dai disastri che siamo”, ha dichiarato in una intervista apparsa ne Il Manifesto (21 novembre 2020), auspicando una società più giusta, un ripensamento del sogno americano e un superamento dei fallimenti passati, perché, scriveva ancora Baldwin, “il nero americano ha il grande vantaggio di non aver mai creduto in nessuno dei tanti miti cui invece è aggrappato l’americano bianco.”
E molta musica afroamericana continua ancora oggi ad essere in qualche modo intrecciata all’eredità culturale di Baldwin. Tre esempi in questo senso sono costituiti dai lavori del Reverend Sekou, predicatore pentecostale, attivista e cantante (cfr l’intervista pubblicata nel numero 147 de Il Blues). Nei suoi lavori discografici, “In Times Like These”(Thirty Tigers) realizzato con Luther e Cody Dickinson e tra gli altri il contributo di Charles Hodges, blues, soul e gospel si combinano per dare vita ad una musica in grado di smuovere le coscienze e scuoterle dal torpore. Molto ispirato sia alla tradizione gospel sia agli scritti di Baldwin, uno dei suoi riferimenti costanti, tanto che almeno un brano condivide il titolo con un suo saggio, “The Devil Finds Work”. In secondo luogo, impossibile non citare una delle collaborazioni più feconde degli ultimi anni, ovvero “Songs Of Our Native Daughters”(Smithsonian Folkways), il progetto che riunito quattro donne afroamericane come Rhiannon Giddens, Amythyst Kiah, Leyla McCalla e Allison Russell. Un coraggioso sguardo al femminile su storie che combinano senza forzature il passato e il presente, storie di lotta, speranza, resistenza, sopraffazione e schiavitù, ma soprattutto consapevolezza ed empatia. E il richiamo a Baldwin è evidente fin dal titolo che si sono scelte, un omaggio a “Notes Of A Native Son”, celebre raccolta di saggi edita per la prima volta nel 1955. (In Italia la si trova in traduzioni diverse come “Appunti Americani” o “Questo mondo non è più bianco”) e ad una citazione da esso, contenuta nelle note, “è soltanto tramite la musica che il nero in America ha potuto raccontare la sua storia. Ed è una storia che altrimenti deve ancora essere raccontata e che nessun americano è pronto ad ascoltare.”
E infine veniamo al più recente, “No More More Water- The Gospel Of James Baldwin” (Blue Note), pubblicato lo scorso 2 agosto, proprio il giorno del centenario, da Meshell Ndegeocello. La nota autrice e bassista, la cui musica sfugge a categorie fisse, ha messo insieme un album collettivo e molto sentito, che trare origine da una performance interdisciplinare all’Harlem Stage Gatehouse nel 2016, ispirato da “The Fire Next Time”. La lettura del saggio, ha detto lei, è stata un’esperienza che le ha cambiato la vita, aiutandola ad elaborare questioni irrisolte. Il disco tiene insieme sonorità anche molto diverse, con la partecipazione di numerosi musicisti quali il chitarrista Chris Bruce, il cantato di Justin Hicks o il sax di Josh Johnson, la batteria di Abe Rounds e le tastiere di Jebin Bruni. In equilibro tra soul, jazz, funk, rimandi africani anche alcuni momenti parlati come i recitativi della poetessa femminista giamaicana Staceyann Chin o dell’autore/docente Hilton Als. La prima anima un discorso appassionato, “Raise The Roof” che è insieme riassunto del passato e una chiamata a schierarsi, protestando attivamente contro violenze e abusi, con un sottofondo minimalista eppure evocativo, come pure in “Baldwin Manifesto I & II”. Altri momenti richiamano alla semplicità quasi folk degli anni Sessanta, “The Price Of A Ticket”. Altrove, come in “Trouble”, siamo in ambito R&B con versi quasi epigrammatici quali “pain makes you humble, hurt is hard to sing”. Il finale “Down At The Cross”, quasi sospeso lascia aperto uno spiraglio e un interrogativo, “once you leave, there’s no turning back, will it be better?”. È un album che guadagna ad essere ascoltato più volte e possibilmente in sequenza, lasciando affiorare ad ogni passaggio un pezzo diverso di un grande mosaico sonoro.
Il vangelo secondo Baldwin (per citare l’opera della Ndegeocello) o potremmo dire, la trasmissione delle sue parole, della sua visione del mondo, sin dalla pubblicazione del romanzo d’esordio “Go Tell It On The Mountain” (non a caso titolo di un celebre spiritual) continua dunque a viaggiare, trasportato dai venti della storia, dando vita a nuovi germogli e rampicanti.
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