Si sa, l’estate è sempre gravida di concerti ed eventi che la bella stagione ci riserva con un po’ più tempo libero e un po’ più ore di luce. Complice un’inattesa frescura che ha travalicato l’arsura degli anni precedenti, giungiamo in fondo a giugno anche per quest’appuntamento musicale, il Chiari Music Festival, nella tradizione dell’associazione ADMR, che tutto l’anno s’impegna con passione a organizzare spettacoli di artisti che altrimenti sarebbe difficile ritrovare dal vivo, tra le rotte più consuete per la musica in Italia. Non fosse che il periodo poi disponga a volte di troppe concomitanze di eventi, forse disperdendo il pubblico interessato; e che il fresco di questi giorni abbia coinciso piuttosto con temporali e disastri che in montagna hanno alterato le più liete prospettive.

Tant’è, ma la musica conserva sempre una parentesi dalle ferite del mondo e l’occasione pare propizia per ritrovare alcuni artisti che confluiscono, all’interno di una più onesta denominazione di Chiari Music Festival, in ciò che rimarrebbe altrimenti più ascrivibile alla classificazione di “Blues” festival. Ritroviamo allora, alla data da noi prescelta, la gradita ricomparsa di Eric Bibb, nome di punta per una serata “ad hoc” per la nostra linea editoriale; oltre a catturare all’indirizzo dei nostri “dintorni” il sostegno in apertura della Band of Friends: nome oltremodo generico, che non avremmo mai immaginato coivolgere invece la sezione ritmica dell’indimenticabile “antieroe” chitarristico irlandese Rory Gallagher, dal 2017 egregiamente omaggiato dai suoi pards, Gerry McAvoy al basso e Brendan O’Neill alla batteria, coi due chitarristi Marcel Scherpenzeel e Paul Rose a tesserne alchimie più rock.

Gennaro Porcelli – Foto di Matteo Fratti

Comunque, intensa anche la proposta pomeridiana, sfumata al crepuscolo senza soluzioni di continuità (se non per alcuni intermezzi colloquiali imbastiti ai cambio – palco) nemmeno all’ora di cena, quando la spontaneità di Gennaro Porcelli alla 335 ci ha incantato come se venisse da un’altra epoca; così, gli australiani Black Sorrows, che hanno colto nel segno, formula erede di rhythm & blues e soul articolata in intrecci “Van – Morrisoniani” e Asbury – sound: quelli, on stage, appena dopo che Egidio “Juke” Ingala & Jacknives ci avessero introdotto ad un contesto il cui viraggio al nero sarebbe stato più pregnante, col loro Chicago-style. Questi sono infatti sul palco mentre arriviamo, Ingala intento a soffiare nelle ance quel suono d’armonica distorta come nella più vera tradizione della Città del vento, agghindati come in una bisca dal whiskey clandestino; sudando blues, a scanso di equivoci. Si discostano musicalmente un poco, se non nella matrice più urbana, allorché quattro parole nella più vera tradizione radiofonica improntata dall’organizzazione ci presentano Joe Camilleri dei Black Sorrows, di lì a poco in scena con la già citata band dall’altro emisfero: ballatone soul e pezzi di “maximum R & B”, si direbbe, energici e coinvolgenti sì da far alzare le persone ad assieparsi sotto il palco, sax (e bella voce) di Camilleri in gran spolvero; mille espressioni del chitarrista come se la chitarra parlasse.

Egidio “Juke” Ingala & The Jacknives – Foto di Matteo Fratti

Quando a loro seguirà la band di Porcelli, avviandoci al tramonto, il volume si alza progressivamente, fintanto che il suo bellissimo omaggio alla “Highway 61 Revisited” di Bob Dylan (ma rigorosamente versione Johnny Winter) ci rimarrà impressa per molto tempo. Ci strappa invece un nostalgico sorriso rivedere salire on stage McAvoy e O’Neill, che avevamo incontrato anni fa coi Nine Below Zero, ora a riproporre esplicitamente un tributo al compianto Rory Gallagher, con cui condivisero parte importante della loro carriera. A Chiari ci rifanno i pezzi più potenti dei dischi a cui parteciparono, come il blues di “Off The Handle”, da “Top Priority”, 1979; o la solare e aperta “Lonely Mile”, da “Jinx”, 1982 (e per l’occasione, McAvoy vigorosamente al canto); così, delle classiche a ritroso, come la virtuosa “Moonchild”, da”Calling Card”, 1976; “Bought and Sold”, da “Against The Grain”, 1975; l’immarcescibile “Tattoo’d Lady”, da “Tattoo”, 1973, già cavallo di battaglia nello storico “Irish Tour ’74”, indimenticato LP coi monumentali “live” della storia del rock.

Band Of Friends foto Matteo Fratti

Sarà così la sera ad accogliere le atmosfere più soffuse e raffinate dell’atteso Eric Bibb, stavolta come raramente ci sia capitato di vederlo: band al completo, un chitarrista elettrico, basso, batteria e i cori della moglie in alcune canzoni. Sua, la padronanza di un blues articolato e impeccabile, elegante come l’abito che sfoggia e un cappello a tesa larga. Il suo spettacolo si articola nelle più svariate combinazioni, dalla presentazione dei suoi nella prima parte dello show (col tocco laid-back di Christer Lyssarides all’elettrica; l’afro-appeal di Desmond Foster al basso; il sussurro ritmico alla batteria di Paul Robinson) al minimalismo di un’esibizione tanto più intensa al ridursi dei componenti sul palco.

Eric Bibb – Foto di Matteo Fratti

Ci sono tutti, quando fa cose come “Going Down The Road Feelin’ Bad” o “Bring Me Little Water, Sylvie”, in quello stile folk-blues alla Mississippi John Hurt o Leadbelly, che più gli è congeniale; ma anche quando la band condensa l’energia di “With A Dollar in My Pocket” in mille rivoli strumentali; fino all’inversione di tendenza, solitario e a cappella, con “Refugee Moan” (da “Migration Blues”, 2017) dedicata a tutte le persone alla disperata ricerca di un posto sicuro dove stare. Un momento forte, quello in cui Bibb rimane poi con l’acustica, nella formula di come l’abbiamo più volte ritrovato dal vero. La ricomposizione della band, che riporta il sustain dell’altra chitarra e a seguire anche gli altri, invita infine ai cori anche la consorte Ulrika Bibb, fino all’immancabile (e incantevole) “Needed Time” in chiusura: non solo di un grande concerto, ma anche di una pregevolissima giornata di musica, tra blues e dintorni.

Matteo Fratti

 

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