Highway 80_Edmun Pettus Bridge a Selma

Un voto lungo 50 miglia

Moundville, Alabama, 21 settembre 2005. Lasciammo Moundville, dopo aver visitato il villaggio dei nativi ricostruito ed i suoi particolari tumuli di terra, avendo quale obiettivo Montgomery, capitale dello Stato. Scendemmo quindi verso Sud percorrendo la State 69 ma, quando intersecammo la US 80, ci rendemmo conto che svoltando a sinistra saremmo sicuramente arrivati a Montgomery, ma che prima lungo il tragitto avremmo incontrato la cittadina di Selma. Leggere quel nome sul cartello stradale che ce la indicava, ci riportò alla mente quante volte lo avevamo pronunciato durante gli anni della nostra gioventù, e di quante altrettante volte lo avevamo immaginato visto che ci era noto solo come uno dei punti focali della lotta per i diritti civili e non certo per le costruzioni storiche risalenti alla metà del 1800 ancora in essere. In quel preciso istante Selma detronizzò Montgomery dalla vetta dei nostri interessi, assumendo subito la dimensione e l’impellenza del sogno da realizzare.

Ecco perché ancora oggi, prima di proseguire e di aver visto il film omonimo “Selma”, riteniamo doveroso spiegare per chi non c’era fisicamente allora, per chi non si ricorda più dei fatti accaduti ed anche per chi non si è mai interessato agli stessi, cosa successe a Selma nel 1965 sino a renderla protagonista, più o meno involontaria, di un momento storico entrato di “diritto” nei libri di storia.

Un po’ di storia

Sulla spinta innescata dai movimenti afro-americani nazionali per l’uguaglianza, in questo caso il loro diritto al voto, nacquero a Selma, Alabama, parecchi movimenti tra cui il più importante fu il DCVL (Dallas County Voters League). E fu proprio nel 1963 che gli appartenenti al DCVL, con l’appoggio fondamentale del SNCC (Student Nonviolent Coordinating Committee), diedero inizio alla operazione di registrazione dei votanti. Da quel momento l’avversione dei bianchi nei riguardi di quanto stava prendendo forma, assunse ben presto toni da contrasto fisico, anche grazie al sostegno del governatore dello Stato George Wallace. Fiutato il pericolo incombente, la DCVL decise di chiedere aiuto sia a Martin Luther King Jr. che alla Southern Christian Leadership Conference. Il loro supporto si concretizzò con l’invio di molti attivisti che, potendo vantare un più ampio curriculum di esperienze similari, potevano agire da stimolo e banca dati umana per i neofiti di Selma. Ed ecco che, dopo un periodo inevitabile di gestazione, la DCVL decide di dar vita alla sua prima marcia dimostrativa. L’itinerario prevedeva che i partecipanti, muovendo da Selma, avrebbero dovuto raggiungere Montgomery, capitale dello Stato dell’Alabama. Era il 7 marzo 1965, e questa data verrà poi universalmente conosciuta come la “Bloody Sunday”, quando circa 600 attivisti impegnati nella macia vennero attaccati dalla polizia locale e da quella di Stato con manganelli e gas lacrimogeni. Risultato 35 feriti.

Ma gli organizzatori non demorsero. Infatti sebbene che alla seconda marcia, che ebbe luogo il martedì seguente, la fortuna non arrise in quanto i 2.500 partecipanti, una volta che ebbero attraversato l’Edmund Pettus Bridge (ponte che scavalca il fiume Alabama), vennero “indotti” a tornare indietro.

La terza marcia ebbe inizio il 16 marzo, e le poche migliaia di partecipanti, scortati da 2.000 soldati e 1.900 agenti della Guardia Nazionale, percorsero per circa 50 miglia la US Route 80, nota come Jefferson David Highway, sino a raggiungere (nel frattempo erano diventati 30.000 tra cui anche il Rev. Martin Luther King Jr.) Montgomery il 24 e lo State Capitol il 25. La strada venne successivamente ribattezzata ufficialmente come il “Selma To Montgomery Voting Rights Trail”, e finì per essere annoverata tra i percorsi storici dell’intera nazione americana. Il giorno 26, sulla strada del ritorno, quattro giovani membri del Ku Klux Klan assassinarono Viola Gregg Liuzzo di 38 anni, di Detroit e madre di cinque figli.

L’evento musicale

The Staples Singers Freedom Highway Complete

Tutto ciò ci è servito per dare il senso compiuto all’operazione che, in occasione del 50° anniversario di quelle marce, ha spinto la Legacy Recordings (e d’altronde con un nome così non poteva certo esimersi…) della Sony Music a ripubblicare arricchito di sei brani, rimixato, corredato da un titolo che non lascia dubbi sul suo contenuto, “Freedom Highway Complete – Recorded Live At Chicago’s New Nazareth Church”, quell’ellepì pubblicato proprio nel 1965 dalla Epic in occasione dei fatti di Selma, intitolato allora “Freedom Highway” ed interpretato da The Staples Singer.

La famiglia Staples è al gran completo, con Pops voce e chitarra, i figli Cleotha, Mavis, Pervis e Yvonne alle voci, mentre la sezione ritmica essenziale è affidata ad un duo con i cosiddetti, ovvero Phil Upchurch al basso e Al Duncan alla batteria. Il risultato a questo punto, con artisti del genere sinonimi di sicurezza qualitativa, appariva scontato già in sede di LP, per cui non ci resta che accettare gli inediti per quello che sono: dei riempitivi. Ma con questo aggettivo non vogliamo sminuirli, perché in un concerto che finisce per essere anche una rappresentazione sacra, è giusto che ci sia lo spazio per l’Introduzione affidata a Pops, l’Offertorio al Rev. Hopkins, e la Chiusura con Benedizione rispettivamente a Pops e Hopkins. Degli altri tre inediti, “Jesus Is All”, “View The Holy City” e “Samson & Delilah”, è proprio questa ultima traccia a comunicare al meglio, con il ritmo del battito delle mani, la carica umana che la percorre.

Ma come dicevamo prima la “famiglia” ha in mano il concerto, ed ha il pregio di non trasformarlo in un fragoroso manifesto esageratamente antirazzista, bensì di fornirci un tracciato musicale in cui gospel, blues e soul si fondono unicamente alla ricerca dell’anima degli ascoltatori. E’ infatti un piacere sprofondare negli slow (“The Funeral”, “What You Gonna Do”, “When I’m Gone”) che Pops ricava dai suoi tocchi chitarristici su cui inserisce il suo talking blues che avvolge il tutto, unitamente al coro dei figli, in un’aura di magnetismo. Ma è con altrettanto sentimento ed energia che veniamo richiamati alla realtà che ci circonda quando una delle voci femminili ci riporta alla sacralità con il suo richiamo rauco e graffiante senza scampo in “Freedom Highway” (composta per l’occasione) accentuato dal battito delle mani, in “Precious Lord, Take My Hand” dove intacca la nostra insipienza, e in “Help Me Jesus” e “Tell Heaven”, straordinari sermoni tra Pops & Co sino a che il ritmo e la voce ne bruciano l’essenza trasformandoli in maiuscoli esempi liberatori. E’ questo alternarsi di situazioni canoro/musicali la forza del concerto, c’è insomma il tempo per riflettere sia sull’uomo che siamo che sul Dio che ci circonda.

Un cenno per “We Shall Overcome” inno alla libertà che verrà composto a più mani (tra cui quelle di Pete Seeger, ma in realtà derivato dall’antico canto religioso nero “I’ll Overcome Someday”), che, aperto dalla chitarra di Pops, viene portato avanti da una voce femminile che, a chi come noi che ha vissuto quegli anni, riesce ancora oggi a penetrare nell’anima per la sua semplicità (“La verità ci farà liberi un giorno…”) facendoci ricordare, qualora ce ne fossimo dimenticati, che tra il diverso colore della pelle e i colletti blu o bianchi di quegli uomini e quelle donne, in quei momenti, cominciava finalmente a non esserci più nessuna differenza. Registrazioni effettuate a Chicago, Illinois, 9 aprile 1965.

[Marino Grandi – Il Blues n. 130, Marzo 2015]

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