Gerry Hundt – Taking a Blues Ride

di Matteo Bossi

Ci sono figure di musicisti che hanno saputo rivestire ruoli differenti, rappresentando spesso un valore aggiunto rilevante per i progetti nei quali si sono trovate coinvolti. Un caso paradigmatico è quello di Gerry Hundt, multistrumentista attivo da oltre vent’anni, soprattutto, ma non solamente, sulla scena di Chicago, accanto prima a Nick Moss e poi a Corey Dennison, portando avanti in parallelo lavori solisti in formati che vanno dal one man band ad una formazione allargata. Da qualche anno fa parte di un trio, Dig 3, con Andrew Duncanson e Ronnie Shellist, con i quali ha pubblicato due ottimi lavori, tra cui il recente “Damn The Rent“,  in cui il blues tradizionale viene vissuto con un tocco personale.

Come sono nati i Dig 3? È successo nel 2020 durante la pandemia?

Sì, Andrew e Ronnie stavano lavorando a materiale per la Kilborn Alley prima della pandemia. Io ho lavorato con Ronnie per anni su varie cose, ho anche prodotto due suoi dischi…Ho realizzato alcune registrazioni di Andrew su Blue Bella, l’etichetta di Nick Moss. Perciò li conosco da anni. Ronnie si era trasferito a Champaign, dove vive Andrew per lavorare di più con lui e così abbiamo deciso di trovarci per suonare. Ronnie è molto attivo su youtube e sui social media con i suoi insegnamenti di armonica, abbiamo pensato di suonare e mettere qualcosa su internet, qualcuno ci avrebbe visto e magari ci avrebbe pagato qualcosa, ma era soprattutto per divertimento. Questa era l’idea alla base, inizialmente e ci siamo talmente divertiti che Andrew ha detto, “perché non andiamo in studio e vediamo cosa succede?”. Ecco come ha avuto origine il nostro primo album.

Lo avete prodotto da voi con una campagna di crowdfunding?

Abbiamo inciso il disco ed è venuto davvero bene. Così ci siamo detti, “ma perché non lo pubblichiamo e lo vendiamo?” Allora abbiamo avviato una campagna su Gofundme per preordinarlo, volendo si poteva anche contribuire di più. La cosa ha funzionato benissimo per noi e così lo abbiamo rifatto per “Damn The Rent”.

Dig 3 photo Lola Reynaerts

La qualità della scrittura e della musica è davvero valida. Pensi sia tra le cose migliori che hai fatto finora?

Si sono d’accordo. Andrew scrive canzoni forti, di solito ha un’idea di come vorrebbe la musica, ma è molto aperto ai nostri consigli e il più delle volte è davvero un lavoro di gruppo il suono che le canzoni finiscono per assumere. Collaboriamo facilmente, ci sono poche cattive idee! E a volte anche quelle si rivelano buone. C’è una certa familiarità, ma anche, credo, una nostra impronta personale, un nostro suono. Non ascolto tutto quello che esce, ma mi sembra che quello che suoniamo e registriamo non sia qualcosa che si ascolta tutti i giorni.

Avete in programma molti concerti?

Saremo in Georgia a Macon e per altri concerti al Sud e poi in agosto per alcuni festival e concerti nei club. Ronnie è tornato a vivere in Colorado, perciò non riusciamo a suonare a livello locale come prima. Andrew ed io suoniamo insieme un paio di volte al mese, come duo o con una band. È così che sono venute fuori le bonus track di “Damn The Rent”, abbiamo suonato a Chicago con la band. Quelle tracce sono di una session diversa, che volevamo fare.

Come è nata la foto di copertina?

È nata per via di Ronnie…nella session principale avevamo questa canzone “Gold Tooth” e c’è quel verso e quando abbiamo finito e stavamo guidando verso Champaign, lo studio era un poco più a sud della città, ci siamo detti che ovviamente “Damn The Rent” avrebbe dovuto essere il titolo del disco. Poi Ronnie, non avevamo ancora iniziato a pensare alla copertina, ha detto “e se fosse la storia di un tizio che getta giù dalla finestra del suo appartamento la TV perché ne ha abbastanza?” Eravamo d’accordo, anche se abbiamo faticato a capire come comunicare questa storia tramite un mezzo statico come la fotografia. Tornando dal Winter Blues Fest di Des Moines, dove abbiamo suonato lo scorso anno, io Andrew  parlavamo scambiandoci idee. Non dev’essere un grande edificio e se poi usassimo vere persone? Così le persone in copertina sono i miei vicini di casa a Chicago, Louis e la sua compagna Bertha. Sono davanti a casa loro. Nel maggio scorso siamo andati lì a fare le foto con mia moglie, Lola Reynaerts, che è belga ed è una fotografa fantastica. C’era ancora l’idea della TV e quando ne ho parlato a Louis, lui ha detto, “oh ma io ho una TV che potete rompere!”. “Ottimo”, gli ho risposto. Mi sono fatto prestare un martello dal mio padrone di casa, ce l’ho ancora qui e abbiamo davvero spaccato la TV nel cortile di Louis. È una vecchia TV e ha fatto un gran rumore, tutti i vicini sono venuti fuori pensando che fosse scoppiata una bomba. È venuto fuori un racconto, ovviamente le persone in copertina sono ispirate ad American Gothic, il dipinto di Grant Wood che oltretutto è esposto a Chicago (all’Art Institute of Chicago ndt) e sul retro c’è la TV rotta a martellate.

Tornando indietro, eri molto amico di John-Alex Mason, avete anche inciso un album insieme come Mason & Hundt.

Vero, John-Alex ed io ci siamo conosciuti al college, in Vermont. Era di un anno più vecchio di me e si è diplomato per primo. Credo abbia anche lavorato per un po’ come fotografo in Germania per il governo americano e al ritorno si  è stabilito di nuovo in Colorado ed ha iniziato a suonare musica. Era di Colorado Springs e all’epoca viveva a Vail. Aveva diversi concerti in programma. Io al tempo vivevo a New York, stavo lavorando come elettricista e carpentiere per MTV. Lui mi chiamò, chiedendomi se volessi andare lì a suonare con lui in alcuni concerti.  “Certo,” gli dissi, “sembra divertente”. L’idea mi piaceva, avevo da parte qualche risparmio e così decisi di andare lì e provare a vivere facendo musica. È quel che ho fatto nel 2001. Abbiamo tenuto qualche concerto come duo e realizzato l’album come Mason & Hundt. Al tempo non c’erano molti ingaggi per i duo, o suonavi da solo o con un gruppo. Lui ha continuato a suonare da solo. Io sono cresciuto nella zona nord dell’Illinois/sud Wisconsin suonando in gruppi ero più abituato a fare così. Perciò anche in Colorado ho iniziato a suonare in alcune band, ne abbiamo anche messa su una di blues elettrico, abbiamo persino aperto per Jimmie Vaughan. John-Alex era un tipo eccezionale.

Quando mi sono trasferito in Colorado abbiamo anche condiviso una casa io, lui e la sua ragazza e futura moglie, Rosanne. Erano bei tempi, era facile andare d’accordo con lui. L’unica discussione che abbiamo mai avuto risale al college e riguardava la tonalità originaria di “Stagger Lee” di Mississippi John Hurt. Perché nelle registrazioni dopo la riscoperta la suona in Re ma nei vecchi 78 giri gracchianti sembra in Fa diesis. Ma gli dicevo, “no, è solo che l’hanno accelerata, all’epoca lo facevano talvolta. Ma è registrata ad una velocità più bassa, sul disco invece in così sembra in una tonalità più alta…” Lui era convinto fosse in Fa diesis, non ha mai ammesso che avevo ragione. Ma penso che da allora abbia iniziato a suonarla in Re! È stato un piacere vederlo crescere come artista, aveva cominciato a frequentare la Hill Country del Mississippi con Richard Johnston…è stato quello a convincerlo a intraprendere la strada del one man band e a suonare la Lowbow cigar box.

Lavorare a Jook Joint Thunderclap è stata una esperienza meravigliosa. Ho capito che ci stava investendo anche parecchi soldi, eravamo in un bellissimo studio, con dieci musicisti coinvolti, me incluso, mi aveva fatto venire in Colorado apposta. Aveva Lightnin Malcolm, Cedric Burnside, Cody Burnside…un musicista del Mali che suonava una marimba, due percussionisti africani. È stato incredibile e la musica era talmente bella. L’unica sovraincisione che abbiamo fatto è stata per il basso, altrimenti tutto è stato fatto in una o due take. Ho ancora un ricordo vivo di quelle session. Un grande studio, Lightnin Malcolm era alla mia sinistra, John-Alex era un po’ più indietro, dietro ai baffle per la voce. Cedric Burnside era in un altro angolo alla batteria, all’altro lato della stanza. Lo vedevo suonare, che incredibile energia ha portato. Davvero una bella session. Per una canzone, “More Than Wind”, una ballad, John-Alex mi ha mandato il mix iniziale, dicendomi, “non so cosa fare su questo pezzo” “Cosa intendi dire?” “Beh nel mezzo c’è una parte dove io e Lionel Young suoniamo la melodia, forse ci dovrei mettere un assolo di chitarra”. “Non osare farlo, lasciala stare, è come dovrebbe essere, lascia la melodia così.” Seguì il mio consiglio ed è un brano che amo tuttora. Quel pezzo e l’ultima, “Whisper”, erano un po’ diverse dalle cose che aveva fatto prima, quasi da crooner. E poi se ne è andato ed è stato molto triste.

 Tu ed altri artisti gli avete reso omaggio con un album tributo “Homeward Bound” ed anche un concerto.

Si e la TV pubblica di Colorado Springs ha filmato il concerto. È stato molto bello, abbiamo suonato con un altro amico, il batterista Tony Hager, che è scomparso a sua volta due anni fa. All basso c’era Todd Edmunds, che ha suonato con Jason Ricci e Otis Taylor ed era presente anche uno dei percussionisti della session di John-Alex. Ci siamo trovati tutti per un soundcheck quel giorno…e suonando la canzone dal vivo non sono riuscito ad arrivare alla fine senza piangere. Proprio non ce la facevo. Rosanne era lì ed anche sua madre e stavamo piangendo tutti. La sera riuscii a farcela ma dal filmato si può vedere che eravamo tutti in lacrime. Per il CD invece, io e Ronnie abbiamo registrato una canzone che avevo scritto, “Jaybird” nel suo ufficio casalingo. Elam McKnight cercava di mettere insieme questo progetto e c’era una scadenza da rispettare. C’è stato un periodo, tra quando ho lasciato la band di Nick Moss e prima di unirmi a quella di Corey Dennison, in cui mi sono messo a fare un sacco di registrazioni fai da te, la maggior parte delle quali sono sulla mia pagina bandcamp. E su una di esse c’è un’altra versione di “Jaybird”, penso sia su “On 14th Street”.

Gerru Hundt Ralph Kinsey photo Kyle Telechan

Uno di questi tuoi progetti discografici comprendeva Ralph Kinsey alla batteria. Anche lui è scomparso di recente.

Ralph era una persona molto speciale. Quando mi sono trasferito nel nordovest dell’Indiana e ho iniziato a conoscere i musicisti della zona, Kenny Kinsey e altri stavano lavorando ad un album solista di Ralph. E avevano inciso una versione di un pezzo di Jimmy Reed, “Take Out Some Insurance”. Avevo presente i Kinsey Report come band di rock blues, ma quando ho conosciuto meglio loro e la loro storia ho capito che erano cresciuti suonando cose di Muddy Waters e Jimmy Reed con Big Daddy. Ho messo insieme la prima incarnazione del Gerry Hundt Trio con Ralph Kinsey perché non era sempre impegnato coi Kinsey Report. Suonavamo a livello locale con Randy Nelson al basso. Suonare con Ralph era molto divertente. Ho tenuto concerti con Kenny e Ralph, anzi ora che ci penso una delle mie prime registrazioni è stata con loro, un “Live In Gary, Indiana”. A prescindere che fosse un concerto in un piccolo locale o ristorante o sul palco di un grande festival, per Ralph era lo stesso. Era lì per la musica ed era una persona molto dolce. Quanto alla batteria era senza paura, sapeva suonare in modo folle e mi ha influenzato molto anche sotto questo aspetto. È stato il primo che ho ascoltato suonare un beat rock su un passaggio di chitarra country o gospel. Roba davvero tosta ed è una lezione che porto ancora con me. Aveva un gran senso dell’umorismo e un sorriso luminoso e poi arrivava sempre in anticipo.

Come sei arrivato a suonare il mandolino? Hai inciso un CD ad esso dedicato, “Since Way Back”, per l’etichetta di Nick Moss.

Sono cresciuto a Rockford, Illinois e ascoltavo una trasmissione da una radio di DeKalb, Illinois che passava parecchia roba contemporanea ed altre molto vecchie. Per contemporaneo intendo William Clarke, Gary Primich, Albert Collins, Robert Cray…e per le vecchie Robert Johnson. Nick (Moss) mi ha fatto conoscere molti artisti di Chicago blues che non conoscevo molto come Magic Slim o Willie James Lyons e altri. Un altro musicista che ho ascoltato e mi è piaciuto molto è stato Johnny Young. Ho comprato un mandolino da Tony Hager, lui era solito acquistare strumenti economici che poi risistemava. All’inizio l’ho accordato come le quattro corde della chitarra ma quando ho cercato di suonare sopra Johnny Young non funzionava per nulla. Così l’ho accordata come un violino e tutto ha cominciato ad avere un senso. L’armonica blues e il mandolino sono simili, hanno lo stesso tipo di intervalli armonici, le quinte…il mandolino è  uno strumento viscerale per me. Miglioravo in fretta, mi piaceva suonare blues sul mandolino. Al tempo realizzavamo bei dischi su Blue Bella con Bill Lupkin o la Kilborn Alley e c’erano molti armonicisti a fine anni Novanta/inizio Duemila e così volendo fare un disco mio ho pensato di realizzare un “mandolin record”, era qualcosa che non faceva nessuno. Ovviamente lo stesso anno Billy Flynn ha pubblicato un suo disco di mandolino e Rich Del Grosso anche. Ma mi sono detto, va bene lo stesso, in fondo eravamo comunque solo in tre invece di trenta chitarristi! È stato un bel periodo, abbiamo anche messo in piedi un concerto tematico a Rockford, Mandolin Madness, abbiamo invitato apposta Rich Del Grosso ed è stato divertente.

Come vi eravate conosciuti tu e Nick?

Quando vivevo in Colorado, il mio amico Easy Bill, che è appena andato in pensione, era un DJ radiofonico e trasmetteva R&B anni Cinquanta alla radio pubblica, stava realizzando il suo primo album e aveva ingaggiato Nick come produttore. Io non lo avevo mai sentito. Bill mi copiò due CD, uno era un album di Kim Wilson, “Looking For Trouble” e l’altro era “Count Your Blessings” di Nick Moss. Il disco di Wilson mi piacque, un bel lavoro e Kim è sempre bravissimo. Poi ascoltai il disco di Nick e mi ricordo di aver pensato, “questo è diverso, Chicago blues ruvido, un po’ più moderno ma allo stesso tempo tradizionale”. Mi piaceva davvero molto. E poi c’erano i bonus con Barrelhouse Chuck, Curtis Salgado, Sam Myers…molto belle. Alla fine, ho suonato l’armonica e la batteria su quel disco di Easy Bill, con Nick ci siamo trovati subito bene. Tempo dopo erano in zona e avevano bisogno di trovare una serata. Io organizzavo una jam la domenica pomeriggio e così li ho invitati a suonare. La line up includeva sua moglie Kate al basso, Barrelhouse Chuck al piano e Smokey Campbell alla batteria. Suonavano alla grande. CI trovammo attorno ad un tavolo a fine serata e Nick disse, “questo è l’ultimo tour di Kate”. Era incinta di loro figlia, Sadie, che ora è al college! Io dissi “beh, posso suonare il basso”. Nei mesi seguenti ne parlammo. Andai a trovare i miei genitori, che non vivevano molto distante da lui. Abbiamo tenuto un paio di concerti a La Cross, Wisonsin e Minneapolis. Nick aveva anche un altro bassista che voleva usare, ma mi propose di unirmi alla band come quinto elemento, suonando chitarra e armonica. Così ho lasciato le mie cose a casa dei miei e sono salito sul furgone. Nei cinque anni successivi ero in pratica o in giro a suonare o nel seminterrato di Nick a mixare dischi. Anni divertenti.

Gerry Hundt photo Ronald Oor

Erano gli anni in cui si occupava anche della Blue Bella.

Si ed hanno avuto la brillante idea di gestirla come una cooperativa, gli artisti potevano registrare i loro dischi e conservare i diritti sulla musica. Facevamo uscire infornate di dischi insieme, in modo da suddividere i costi di promozione e distribuzione…e la cosa funzionava. I costi si riducevano così. Erano tempi prima di Facebook, c’erano ancora molti documenti, press kit, materiale da spedire…Kate si occupava di tutte queste cose. Mi ricordo di una volta che per promozione avevamo una “big bag of blues”, per quattro o cinque nuove uscite simultanee si procurò dei sacchetti in tessuto, ci mise i CD e poi il tutto in una scatola. Ecco cosa ricevettero i DJ quella volta.

Come hai iniziato a suonare come one man band?

Quando mi sono trasferito in Indiana non conoscevo molti musicisti, ero spesso in tour con Nick  ma volevo suonare anche quando non lo ero. Ispirato da John-Alex mi procurai una  grancassa e un  hi-hat ed ho trovato un ingaggio da solo. Ho cominciato così, poi ho aggiunto un secondo hi-hat e un rullante…solo che  portarmi dietro tutto questo materiale per un concerto mi richiedeva un’ora di settaggio. Ma poi ho trovato un foot drum, che è compatto e si monta in dieci secondi. Non ricordo se me ne abbia parlato John-Alex o come lo abbia scoperto…Ho continuato a suonare come one man band e inciso un disco nel 2015, anzi dovrei farne un altro. La maggioranza dei concerti che tengo a Chicago sono solisti, suono molto al Kingston Mines, è uno stile un po’ più vicino a Dr. Ross, più lowdown.

Gerry Hundt Buddy Guy Corey Dennison photo Carl Kurek

Come è nata la tua collaborazione con Corey Dennison?

Era il 2013, ci eravamo conosciuti in Canada me ci siamo incontrati poi nell’Indiana nordoccidentale. Una sera lui apriva col suo trio per Buddy Guy al Legends, io tenevo il set acustico. Mi invitò a suonare la chitarra ritmica con loro e la cosa è andata bene. Abbiamo tenuto altri concerti così. Il tizio che ci ha ingaggiati per il nostro primo festival è appena scomparso, Ken Zimmerman, proprietario dell’Harlem Avenue Lounge. Dopo aver suonato a questo festival in Ohio, ci siamo detti che dovevamo proprio avere un disco da vendere, in quel momento vendevamo il mio “Since Way Back” facendolo passare per uno della Corey Dennison Band, visto che non avevamo nessun disco! Così ho registrato un nostro set al Legends, facendo ricordo alle cose che avevo imparato negli anni col fai da te. Non ricordo di preciso come sia venuto fuori il disco su Delmark, ma lo abbiamo fatto prima di iniziare a suonare due volte a settimana al Kingston Mines. Lo abbiamo inciso praticamente dal vivo. Abbiamo scritto alcune buone canzoni, ogni due settimane ci trovavamo per scrivere.

Per il secondo album è stato un po’ folle. Ricordo che atterravamo a Chicago dalla Scandinavia alle 18.30 era una domenica e avevamo un concerto alle 20.00 nel north west side di Chicago. Il nostro materiale era al Kingston Mines, in previsione di questo, ingaggiammo una guardia del Mines affinché ce lo portasse al club per il concerto. Il batterista, Joel Baer, pagò un suo studente per preparare tutto. Arrivammo al club alle 19.45! Il giorno dopo eravamo al Mines, ma la voce di Corey era affaticata…Avevamo il martedi liberto, ma il mercoledi dovevamo andare in studio per incidere la maggior parte di “Nigth After Night” quel giorno. Abbiamo solo dovuto tornare in studio per rifare alcune delle parti vocali di Corey, perché appunto non stava bene, ma altrimenti tutto il resto è stato fatto dal vivo.

Corey si è fermato per un po’?

Si, sai tutti hanno avuto la propria esperienza della pandemia, lockdown…da voi in Italia è stato anche peggio che qui. Perciò anche lui ha attraversato a suo modo questa situazione. Ora torna a fare quello che vuole.

 Ho letto che uno dei tuoi mentori, per quanto riguarda la chitarra, è stato Paul Asbell, già coi Kilimanjaro.

È successo quando ero in Vermont. Paul si era trasferito lì negli anni Settanta da Chicago. Era nella band di Earl Hooker ed ha suonato anche su “Fathers & Sons”. Un giorno a settimana, credo lo faccia ancora, insegnava al college che frequentavo. Mi sono iscritto per una lezione individuale con lui e pensavo che avrei imparato tecniche di chitarra jazz ma mi insegnò anche fingerstyle…Penso che anche John-Alex abbia preso un paio di lezioni da Paul. Ho anche comprato da lui una chitarra, una Gibson acustica che ho tuttora. Ad una delle nostre ultime lezioni prima che mi diplomassi, gli ho detto, “forse avrei dovuto chiederti di più riguardo al blues”. “Forse”, rispose lui, “ma quel che abbiamo fatto è allenare il tuo orecchio”. Mi ha insegnato un po’ di teoria, alcune cose di jazz e di fingerpicking alternato. È una bella persona e un grande chitarrista, era sempre di buon umore. Ricordo che gli portavo dei dischi dalla radio in cui facevo il DJ blues, credo fosse “If You Miss ‘Im I Got ‘Im” di John Lee Hooker, dove c’è una sua foto un po’ sfocata sul retro…sapevo chi era ma non parlavamo troppo del suo passato. Ci rivediamo quando Paul e sua moglie vengono a Chicago, una volta siamo andati a vedere Erwin Helfer e Barrlehouse Chuck. Paul è molto amico di Mark Pokempner un grande fotografo, autore di alcuni scatti iconici.

 Un po’ come il tuo amico Joe Nosek che al college ha avuto come docente Jim Schwall.

Esatto! Jim era anche lui un tipo forte. Con Nick una volta abbiamo suonato ad un festival in Canada e dovevamo tenere un workshop in collaborazione con la Siegel Schwall. Ai vecchi tempi Jim suonava una Gibson B 25, una chitarra acustica con un pickup e così quando eravamo lì sul palco gli ho detto, “dov’è la tua vecchia Gibson?” E lui, “oh, l’ho consumata, non la uso più da anni!” Fu un bel momento.

Come è cambiata la scena di Chicago in questi ultimi anni?

Credo che il cambiamento più grande sia stato portato dal lockdown per il Covid. Non ci sono più molti club aperti sette giorni su sette o anche cinque giorni su sette. Il Kingston Mines è aperto tre giorni a settimana. Questo vuol dire molte meno opportunità di suonare per i musicisti. E le ripercussioni di questo hanno tuttora un impatto, magari anche in un modo che non abbiamo ancora percepito davvero. Molti di noi stanno ancora cercando di capire come andranno le cose. È come se avessimo perso oltre alle persone anche l’ambiente. Specialmente un posto come Blues On Halsted, un baluardo per la tradizione ma che consentiva anche ad artisti nuovi di crescere e migliorare. Una grande perdita. E poi molti degli artisti a cui tutti abbiamo guardato se ne sono andati, lasciando un grande vuoto. Non si può rimpiazzare uno come Jimmy Johnson, una persona splendida e così disponibile con tutti. Rick King ha da poco organizzato un tributo a Vance Kelly, che ha dei problemi di salute e non può più suonare.

La scena sta cambiando, si sta ringiovanendo un po’, ci sono talenti locali e persone che vengono da altri paesi vengono qui per suonare e assaporare le ultime vestigia delle cose che abbiamo lette nelle note di copertina dei dischi. Penso che Chicago, rispetto a New Orleans, non faccia un gran lavoro nel riconoscere il ruolo che la musica ha avuto nel plasmare la storia della città. Solo di recente, negli ultimi tre anni, andando a New Orleans ho potuto capire quanto quella sia una città sa che i musicisti sono vitali per la cultura della città. Puoi ottenere assicurazione sanitaria. A Chicago e in molti altri posti, con l’eccezione forse di Austin, Texas, non è facile. Il 2020 doveva essere l’anno della musica a Chicago, una serie di celebrazioni…alcune cose di quello sono rimaste, come una lista, un database di musicisti che le persone o le aziende possono ingaggiare, non so a che punto sia il progetto della casa museo di Muddy Waters…diciamo che la città ci prova ma potrebbe fare di più.


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