Basta inserire il dischetto nel lettore e ascoltare i primi 50 secondi cantati a cappella da Kaz Hawkins per intuire lo spessore di questa cantante: nata a Belfast, ma da molti anni residente in Francia, la sua carriera musicale si è sviluppata per circa vent’anni in cover band fino all’esordio discografico con “Get Ready” del 2014. In questo decennio il suo nome non ha forse mai raggiunto le più alte vette della notorietà ma le sue qualità non sono affatto passate inosservate, né in Europa né nel Regno Unito: ha infatti partecipato a numerosi festival e vinto diversi contest, fra cui l’European Blues Challenge del 2017, fino a raggiungere le meritate soddisfazioni anche oltreoceano.

Cresciuta cantando in chiesa e ascoltando la nonna, si è presto alimentata con la musica di Etta James e assimilando tutta la cultura musicale americana: l’ultimo “Until We Meet Again” è un eccellente sunto delle molteplici influenze che fanno parte del suo background. Come emerge dai tratti gospel dell’iniziale “Pray To”, conclusa da un eccellente assolo del chitarrista Stef Paglia, fino alle profonde venature soul di “Hold on For Home”, arricchita dai puntuali interventi dei fiati. Questi ritornano in “Don’t Make Mama Cry”, introdotto dai ritmi ancestrali sui quali la voce di Kaz si distende libera, come d’altronde avviene pure in “Get Up And Go”, traccia decisamente rock che richiama per certi versi la raffinatezza stilistica dei Toto.

Viceversa, l’atmosfera acustica di “Lonely Boy” ricorda lontanamente le sonorità dei Renaissance, prima di passare alla brillante title track, un inno coinvolgente dal grande impatto sonoro. Le sorprese non sono finite quando è il momento di “Standing Tall”, struggente ballata che tocca le corde dell’anima, con una voce intensa, potente, avvolgente, impreziosita dalla partitura orchestrale che si combina perfettamente con l’hammond di Cedric Le Goff: la canzone è dedicata a tutte le persone che hanno subito violenza domestica. La cantante passa dalle atmosfere folk di “The River That Sings”, chiaramente influenzate dalle sue origini irlandesi, fino all’ariosa “O Gotta Be Me”, con quell’accenno di easy listening che la rende immediatamente gradevole. Il finale è lasciato all’energica “Get The Jack From The Bottle”, classico pezzo da fine concerto, in cui trascinare l’ascoltatore in un crescendo di applausi. Sì, perché è quello che si merita Kaz Hawkins per la ricchezza della proposta musicale di questo album, che non può che sorprendere positivamente: Kaz canta con il cuore, ogni sua nota è sincera e offerta con la massima intensità emotiva, per cui l’estensione del suo timbro vocale e la varietà musicale offerta da questa decina di composizioni non sono che dettagli rispetto alla passione che la cantante sa comunicare.

 

Luca Zaninello

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