Incontriamo Folco Orselli in occasione della seconda puntata di Blues In Mi, dopo averlo intervistato sia per Il Blues che con tanto di video ormai tempo fa. Passata la pandemia, e nonostante il periodo poco allegro, sia dal punto di vista internazionale con i conflitti come quello in Ucraina, sia in patria con le numerose problematiche legate alla siccità prima e alle inondazioni dopo, la musica e l’arte sembrano sempre un’ancora di salvezza per staccarsi dal quotidiano e ritrovare la motivazione di immegercisi ancora, con nuova energia. Ecco cosa ci ha raccontato!
Di solito dopo un grande film è sempre difficile fare il sequel, come è andata questa “seconda puntata”?
Il progetto prevede la realizzazione di 5 docu-film che spazieranno tra le arti, musica, danza, arti visive, letteratura, teatro, ma anche sport, tutti declinati attraverso i giovani artisti che vivono nelle periferie di Milano. Per questo secondo episodio abbiamo scelto la danza e gli sport più rappresentativi del mondo urban come lo skate, il parkour, il monopattino frestyle, accompagnate naturalmente dalla musica. Abbiamo fatto casting nelle metropolitane, con una call to action, grazie al nostro media partner IGPDecaux e, sostenuti dal nostro main sponsor Unipol|Urban Up, abbiamo selezionato 7 ragazze e 7 ragazzi di 14 quartieri della periferia milanese. Li ho intervistati su 7 temi “caldi” legati alla loro vita: quartieri, sicurezza, integrazione, felicità, internazionalità di Milano, dai un consiglio ai tuoi coetanei che non studiano e non lavorano e fai una richiesta diretta al sindaco. Ho diviso in 7 puntate filmate le loro risposte e le loro performance artistico-sportive. Ne è venuto fuori uno spaccato “dal basso” di quelle che sono le aspirazioni e le idee della generazione dei ventenni. Sono molto soddisfatto e continuo a confermarmi che se ci mette in ascolto, senza paternalismi, da complici, i ragazzi hanno idee preziose.
C’è stata di mezzo la pandemia tra il primo episodio e questo sequel, quanto si sente nella tua esperienza con i giovani che c’era un “prima” e che adesso siamo nel “dopo”?
Ho l’impressione che chi aveva e ha ben chiaro un obbiettivo nella vita, sia riuscito, molto più di chi ancora non l’ha trovato, a superare il disagio e l’alienazione che la pandemia ha portato con sè. È per questo che mi rivolgono agli artisti, voglio che siano da esempio ai loro coetanei. L’artista è “costretto” a una visione, deve necessariamente averla per creare, interpretare il movimento, immaginare il proprio futuro. Questo lavoro appunto vuole essere uno sprono a chi si lascia vivere, perso nell’alienazione della tecnologia, uno stimolo ad imitare gli esempi virtuosi che i ragazzi del cast incarnano.
Blues In Mi comunque era partito come un progetto più ampio, che abbracciasse diverse discipline e diversi quartieri giusto?
Si esatto, la città come organismo, che può vivere in armonia se tutti gli elementi, i quartieri, hanno un ruolo. Io credo che i quartieri esterni, oltre a rivelarci la nostra vera identità, fatta di evoluzione, integrazione, ma anche di salvaguardia della nostra storia che evolve ma mantiene una sua specifica caratteristica, rappresentino le cellule preposte ad immagazzinare energia. La gente che lavora o che studia in centro vive, per la stragrande maggioranza, in altri quartieri, per lo più esterni, dove, per esempio gli affitti, sono meno cari. Attenzione non ho detto più bassi, ho detto meno cari…
Hai detto in qualche intervista che in questo periodo della tua vita hai voluto passare dall’io al noi, cosa significa questo per un musicista che è comunque sempre abituato ad essere “al centro” dell’attenzione?
Ho sentito questa profonda esigenza. Sarà stato un rigurgito a questo palcoscenico virtuale che sono i social, in cui l’individualismo impera. I famosi quindici minuti di notorietà “Wharholiani” sono stati sostituti dalla perenne e continua esibizione del proprio ego, del proprio punto di vista su tutto. Ormai gli intellettuali sono percepiti alla stregua dell’opinionista da bar, in una continua esibizione di saccenza su tutto. Ho sentito il dovere di affermare a me stesso che il “noi”,in questo periodo di esibizione dell’ “io”, è un valore immensamente più grande, potente ed importante.
Periferie di Milano, comunque quartieri non centrali, cosa rappresentano per te questi tentativi di decentrare la vita delle persone? Esiste ancora un senso ad avere delle zone più importanti (e meglio servite) di altre?
Il dibattito pubblico, almeno quello milanese, da tempo si interroga sul futuro dei quartieri. Il quartiere in 15 minuti per esempio, dove ogni zona deve essere in qualche modo autosufficiente per quanto riguarda i servizi ma anche la cultura e la fruizione del proprio tempo libero. Io penso che i quartieri esterni vadano osservati e immaginati più sotto la lente dell’opportunità che sotto quella dei problemi che portano con se. Milano è una città relativamente piccola, e per questo potrebbe essere soggetta ad esperimenti sociali di inclusione che potrebbero far da esempio. La parola “gentrificazione”, se governata dalla politica con idee illuminate, tipo un calmiere sugli affitti per i giovani che vengono a studiare o a lavorare in città, potrebbe essere interpretata non solo con accezione negativa.
Musica e arte, che cosa rappresentano nella vita del 2023 queste forme di “svago”, sempre considerate meno importanti rispetto al “vero lavoro” (da musicista lo capisci bene immagino) e quanto pensi sia difficile cambiare l’opinione dominante?
Mah, questo, a mio parere, è un problema tutto italiano. E da anni mi interrogo sul motivo per il quale gli italiani, non tutti naturalmente, ma una significativa parte, siano così poco propensi ad interessarsi all’arte e alla cultura, o meglio a riconoscere gli artisti per il ruolo che hanno. Si dirà che come Paese, di arte, ne siamo immersi fino al collo, e dove c’è abbondanza si tende a sottovalutare, ma questa cosa non mi convince fino in fondo. Potrebbe essere un fattore antropologico, ci sentiamo tutti artisti e quindi gli artisti, quelli che con l’arte ci vivono, sono alla fine “ridimemsionabili” per quanto riguarda il loro ruolo. All’estero, dove mi capita di lavorare, c’è davvero un’energia completamente diversa, un rispetto, una sana ammirazione per chi passa la vita ad inventare per restituire. L’artista appunto.
Veniamo al blues, che cosa hai trovato di blues nella realizzazione di questa parte del progetto Blues In Mi? Pensi che lo sport e la danza possano essere “blues”?
Penso che il Blues vada iscritto più che nella categoria del genere musicale, a quella dei sentimenti. Naturalmente sappiamo tutti che ha un’origine e una progressione armonica che lo caratterizza. Ma preferisco mettere l’accento sulla sua portata di fratellanza universale. Troverai il Bluesman biondo norvegese che esprime lo stesso feel del musicista blues angolano, lo stesso fine: quello di esprimere ed affermare un desiderio di libertà e di condivisione attraverso queste dodici battute che travalicano le note in se, è un dialogo tra anime. Ecco il blues per me è un esperanto delle anime. Ed è per questo che mi guida in questo percorso.
Il tuo rapporto con i giovani, ovvero se da un lato arrivati ad una certa età si finisce per diventare come i nostri genitori e nonni e dire “i giovani sono tutti maleducati”, dall’altro la tua esperienza cosa ti ha fatto capire? Cosa manca alle nuove generazioni e cosa invece hanno in più rispetto a quando noi avevamo la loro età?
Il pregiudizio, è la più grande stronzata che si possa ospitare in se. Presi dall’ossessione di dare un senso alla propria vita, alla propria generazione, al proprio tempo, giudichiamo dall’alto del nulla o quasi, le generazioni che stanno alla nostra sinistra temporale. Molto spesso senza conoscerle o scambiando il rapporto genitori/figli o nonno/nipote come esaustivo di conoscenza. Così facendo creiamo un vuoto tra noi e i più giovani, un’incomunicabilità che porta all’arrocco sulle proprie posizioni, inutie e dannoso. Se ne potrebbe parlare per ore di questo tema. Mi limito a dire che chi non sa ascoltare vivrà nell’ ignoranza e nel pregiudizio che come significato sono quasi sovrapponibili. Alle nuove generazioni non manca niente, dobbiamo solo ascoltarle e parlarci. Senza paternalismi.
Per non essere retorici, anche se è difficile trattando certe tematiche, che cosa può voler dire essere “diversi” o “uguali” in un mondo come quello attuale, visto che ormai qualunque esame del DNA potrebbe rivelare discendenze inaspettate in ognuno di noi?
Credo che le idee diverse vadano accolte e valutate attraverso la propria coscienza. Io dico solo che come tornare al Blues, per un musicista, è un percorso difficile ma, a mio parere necessario, anche tornare all’amore, inteso come termine universale, sia il dovere morale di ognuno di noi. L’amore ci affratella. L’amore ci fa uguali.
Davide Grandi
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